recensione diNadia Agustoni
Virgile, non. Wittig, deserto e voce per una non mistica commedia.
Saggio di Nadia Agustoni
L'opera di Monique Wittig sembra essere stata scritta per sconcertare. Forse ancor di più è stata scritta per non consentire la rassegnazione.
La scrittrice francese, scomparsa nel gennaio 2003, perviene lucidamente e intimamente in ogni suo testo ad una metafisica della rivolta che accompagna i suoi libri (romanzi-racconti) più noti (Le Guerrigliere, Il corpo lesbico, Virgile non, Viaggio senza fine, Un jour mon prince viendra, per citarne alcuni) e i suoi scritti teorici (The straight mind and other essays).
Lo fa con la tenacia di una convinzione profonda e ardua da sostenere in un mondo che scivola verso le trappole delle differenze tra i sessi, indotte, ma scambiate per naturali.
La resistenza in Wittig è, parafrasando Deleuze, un divenire creativo.
L'arma di Wittig è il desiderio, che in quanto tale (sempre Deleuze) "non manca di nulla" (1) e Wittig lo fonde amorosamente e continuamente con una compassione grande, che sa farsi e rifarsi passione, lotta, dolore perché il cambiamento avvenga.
È così che il suo ultimo romanzo Virgile, non (1985) ora in italiano per la traduzione di Rosanna Fiocchetto edito da Il Dito e la Luna (pagine 149, euro 12), condensa i temi cari alla scrittrice in una parodia-confronto con La Divina Commedia e Dante, che sa farsi di volta in volta sferzante denuncia, proclama, poesia, invettiva, caos epico in cui s'incontrano anime dannate e fantastici animali (Ullofante, burlababu), lesbiche di ogni genere o "schiave fuggiasche" - che, ricordiamolo, sono le fuggitive dalla "classe delle donne" dove "donna" e "uomo" non sono che categorie-costruzioni politiche, sociali, ideologiche che fanno funzionare le strutture del dominio (2).
In Virgile, non, uno dei personaggi è Wittig, con il proprio nome. L'altra, Manastabal, è la lesbica che la guida nei gironi di inferno-limbo-paradiso e che, meno gentile di Virgilio, non solo la sprona a continuare e finire il viaggio, ma spesso la redarguisce per l'emotività di fronte agli orrori dell'inferno.
Wittig e Manastabal - apro una parentesi - mi ricordano in Virgile, non, una coppia di altri viandanti (metaforici) e cioè il Philip Dick e il Nicholas Brady di Radio Libera Albemuth che lottano disperatamente con ogni mezzo, anche con l'aiuto di un'entità misteriosa extraterrestre, contro una dittatura a tal punto capace di apparire "democrazia" che pochi sono consapevoli della sua vera natura.
Se il personaggio Philip Dick è nel proprio romanzo
"un medium neutrale attraverso cui l'emozione si comunica",
così
"l'opera letteraria non è un evento chiuso, bensì" un circolo "attraverso il quale la letteratura transita, venendo "rivitalizzata" nella sua struttura creativa" (3).
Se questo è vero, come leggere allora in modo anticonformista la Wittig di Virgile, non? Come cogliere i suoi suggerimenti, il suo umorismo, la passione e la rabbia più volte chiamate per nome?
La risposta è molto banale: uscendo da sé.
Staccandosi un attimo da quel perbenismo malevolo, di cui spesso il femminismo straripa, e che porta ad appiattirsi nel quieto vivere di poche parole d'ordine, o ancor peggio nella finzione di un "mondo comune" (4) che non c'è mai stato, e che Wittig ha buon gioco a prendere in giro in un capitolo del libro (lo ricorda Rosanna Fiocchetto nella Postfazione), quando in una lavanderia automatica arringa le donne presenti ed è da loro attaccata a parole e nei fatti avendo strappato il fragile velo delle menzogne sul femminile.
"Il re (o la regina) è nudo", grida Wittig, e di rimando deve fuggire perché rischia di essere malmenata da chi trova intollerabile la vista della verità, per quanto risaputa.
Eppure è subito importante sottolineare che se c'è una rivelazione che un certo femminismo ha prodotto, e che Wittig continuamente ha ribadito, è l'importanza del "collettivo", dell'uscita "collettiva" dalla classe delle donne per divenire individui "a tre dimensioni", con uno spessore ed un "io" che traghettino al paradiso, al mondo di libertà e abbondanza che nell'eterosessualità-eterosocialità ci sono stati negati dalla classe degli uomini.
La libertà è dunque un plurale. La libertà è sempre per un soggetto plurale che è in continuo costante mutamento, e che sa che l'impegno nel darsi è un lavoro
"anche per sé, perché ogni libertà è precaria e questo è il prezzo per mantenerla" (5).
In questo breve romanzo non vi sono orpelli, ma uno scorrere di situazioni, che sono l'esemplificazione del reale con cui le donne si scontrano e con cui devono lottare.
La Wittig femminista emerge a tratti, ma in paragrafi significativi, a volte con le voce di Manastabal (suo doppio) a volte direttamente.
In questo senso sono emblematici i capitoli "sulla fiera dell'acchiappo" e sulla parata di "anime in pena" per le vie cittadine, o gli scontri con mitra e armi laser al Parco della Porta Dorata e i commenti "sull'uniforme" portata dalle donne, quegli abiti che le marchiano (scoprendole o coprendole), rendendole riconoscibili e facili bersagli, e che loro sembrano convinte di aver scelto, anche quando una vera scelta (che sarebbe poter dire un no senza ritorsioni-esclusioni-moralismi) non è praticabile.
Ma nel corpus dell'opera anche altri brani sono attraversati o siglati da frasi che sono uno schiaffo:
"Hanno un sorriso senza splendore ma permanente, perché è la loro stella gialla" (6).
O ancora la sferzante ironia di Wittig, assistendo alla parata di donne in ogni foggia, che camminano a malapena e che portano gli emblemi della schiavitù esibiti per suscitare la risata degli spettatori-padroni:
"Non sarà domani che avremo l'armata di Spartacus" (7).
Tutto avviene spostandosi velocemente da un frangente ad un altro ed entriamo, senza logica apparente (ma una logica c'è) prima in un girone dell'inferno e poi in uno nuovo, per passare quindi nel paradiso, e poi nel limbo, a più riprese.
In questi passaggi-attraversamenti scorrono e il deserto (luogo emblematico di iniziazioni e prove), e il paesaggio di San Francisco -- e la memoria mi tradisce di nuovo portandomi con la protagonista de L'incanto del Lotto 49 di Thomas Pinchon (8), in quella via crucis di strade rettilinee che Wittig-Manastabal percorrono correndo, camminando, lasciandosele alle spalle per ritornarci, scrutando da lì colline e cielo e oceano.
Una San Francisco surreale, è questa città di Wittig, come disturbata dall'alta frequenza che l'autrice sceglie di usare, e dove le cose cambiano volto all'improvviso.
Uno spaccato del mercato notturno messo in piedi dalle lesbiche nel Golden Gate Park dà modo a Wittig di darci un anticipo dell'abbondanza del paradiso e ci riempie di descrizioni, dalle droghe ai cavalli alle pietre preziose, fino alla scelta della "giumenta Appalooza" che strappa a Manastabal la considerazione (quanto vera):
"Cosa te ne fai di un cavallo all'inferno Wittig? Ricordati che non siamo in un western. Talvolta la tua confusione dei generi ha davvero qualcosa di barbaro" (9).
Il "paradiso" in Virgile, non, lo si incontra a tratti prima di arrivare al traguardo finale.
Wittig, ad un certo punto, lasciandosi andare, pare identificarlo con le parole che cadono dall'alto.
É solo un attimo, perché Manastabal la avverte:
"...non lasciarti trasportare dalle parole, perché non la farai franca".
E di nuovo:
"Ti assicuro, Wittig, che qui non prenderai il volo a colpi di figure stilistiche" (10).
Ma l'anticipo di paradiso di fatto lo prefigura:
"solo la passione attiva, Wittig, conduce a questo luogo... se ne parla generalmente sotto il nome di compassione..." (Manastabal) (11).
Ed è per questo che toccherà a Wittig-personaggio cominciare a pensare all'opera "delle mendicanti", opera che deve essere scritta, cantata (Wittig, cantora dell'indicibile) (12).
Una scena tra le molte del romanzo va ricordata. Anche Margherita Giacobino ne rileva la comicità, nella sua introduzione.
Si tratta dell'entrata di Wittig-Manastabal nel tempio dell'amore, da dove a colpi di frusta verranno cacciati coloro "che lo insozzano", ma che finirà per costare parecchio a Wittig-Gesù, Crista incompresa dalle sue venali simili.
Quello che risalta in questo passaggio è la sequenza quasi da film muto, dall'accelerazione dell'azione (fino ad un culmine), allo stop improvviso, al ribaltamento della situazione, con Wittig capro espiatorio aggredita e vituperata per aver tolto il lavoro alle povere anime.
Infatti ovunque il testo è permeato dalla descrizione o evocazione della "fame" che possiede, e le anime perse, e le "schiave fuggiasche", che tra loro "parlano poco" e si lasciano stare (13).
Su questa fame la Wittig più femminista si sofferma, senza negarla e senza alcuna condanna.
Il ritorno in barca dalla pesca miracolosa (il vangelo è un altro ipotesto, in questa commedia umana) fa avere a Wittig, subito dopo, la visione delle parole che cadono come farfalle-fiocchi dal cielo e poi subito svaniscono, mentre un po' prima una luce "nera e dorata" colmava quello stesso cielo, così che Wittig commenta:
"Cambio la batteria della mia lampadina tascabile" (14).
Se il deserto è il luogo della prova iniziale e poi finale della Wittig aspirante al paradiso lesbico, che lotta strenuamente con un'angela che la sfida, è la sua voce di "cantora" che pare raccogliersi per il finale, dove la tromba di un'altra angela annuncia il banchetto che segna la fine della fame storica delle fuggiasche, finalmente a viaggio concluso capaci di riconoscersi e a loro volta riconosciute.
Monique Wittig dirà in un'intervista del 1996 a Catherine Rognon-Ecarnot (15) per "Lesbia Magazine" (dicembre 1996) che l'idea del titolo "Virgile, non", le è venuta leggendo Genette, "Palinsesti, probabilmente".
Ecco dunque nel suo romanzo una serie di rimandi ad ipotesti (testi di riferimento) che sono e La Divina Commedia e il Vangelo, ma anche un sottofondo di fantascienza che evoca autrici lesbiche anch'esse in guerra con le categorie di sesso-genere. Una per tutte la Joanna Russ di Female man.
Sempre ad Ecarnot, Wittig, racconterà che
"ho voluto fare a partire dall'esse, la stessa cosa che nell'Opoponax ho fatto a partire dal si impersonale: ho tentato di universalizzare questo pronome, che predomina nel testo a tal punto da non poter più essere inteso come dotato di un genere.
In inglese è molto più facile universalizzare questo esse, visto che il corrispondente they che vale sia per il maschile che per femminile, non ha il marchio del genere grammaticale".
Abbiamo così con esse l'affermazione di una collettività non naturale ma di classe, con propri stili, sessualità e sesso (i sessi visibili delle lesbiche, enunciati) storia ecc., e nello stesso momento la distruzione delle categorie di dominio "dell'eterosessualità obbligatoria", nonché la iscrizione del "punto di vista di una minoranza" nell'universale lasciandone intatta la portata rivoluzionaria, la non subalternità dei corpi su cui i discorsi dell'appropriazione sono stati cancellati con un atto di volontà che sottintende l'individualità di ognuna, che rimane individua anche nel percorso collettivo necessario a definire la propria libertà (16).
La fuoriuscita della lesbica dal femminile è definitiva e per alcune inaudita.
Lo scandalo Wittig non si placherà nemmeno con la sua morte.
L'autrice che più di ogni altra si è a mio parere portata agli estremi, continua a infastidire le apologete della differenza sessuale, ma la sua voce dal deserto, neanche tanto metaforico, dell'Arizona, ha resistito, e la commedia non-mistica o "profana" (17), che possiamo adesso leggere ci perviene come una canzone lungamente attesa.
Note
1) Gilles Deleuze, Dialogues con Claire Carnet, 1980, Conversazioni, Feltrinelli, 1980.
2) Monique Wittig, One is not born a woman, 1981, in The straight mind, 1992.
3) In Radio libera Albemuth di P.Dick, Postfazione, di Elio Franzini, Fanucci Ed. 1996.
4) In DWF n23/24, 1985. Vedere anche AA.VV, Il nostro mondo comune, Felina Libri, 1983.
5) M. Wittig, Virgile , non, Il dito e la Luna, 2006, pag. 38.
6) Ibid., pag. 50.
7) Ibid., pag. 53.
8) Thomas Pynchon, L'incanto del lotto 49, Edizioni e/o, 1996.
9) M. Wittig, Virgile, non, pag. 60.
10) Ibid., pag. 62-63.
11) Ibid., pag. 98.
12) Simonetta Spinelli, "Monique Wittig cantora dell'indicibile" in Donne in viaggio (2003): "Poi è arrivata Monique Wittig. Inequivocabilmente una cantora".
13) M. Wittig, Virgile, non, pag. 99.
14) Ibid., pag. 113.
15) Intervista di Catherine Rognon-Ecarnot a Monique Wittig in Lesbia Magazine, dic. 1996, in italiano in Leggere Donna, Wittig, oui e nel sito www.tufani.it
16) Scrive Margherita Giacobino in un intervento che segue l'intervista di Ecarnot in Leggere Donna:
"la scrittrice francese, vissuta per molti anni in America, viene considerata una precursora e ispiratrice delle teorie queer, ma se da un lato certe sue idee fondamentali (come quella che non esistono 2 sessi ma una molteplicità di individui) vanno nella stessa direzione del pensiero queer, dall'altro Wittig se ne differenzia per un'intensità molto maggiore di carica politica e ideale attribuita al lesbismo".
E continua Giacobino:
"Dalla sua posizione di "lesbica materialista" Wittig sostiene che il linguaggio è strumento di chi detiene il potere e serve a rinsaldarlo. Il senso delle parole è quindi strumentale a chi comanda e la distinzione primaria, fondante, tra uomo e donna, non solo non è primaria e non si basa su un dato naturale (il sesso è solo una delle caratteristiche umane, perché prenderla come quella fondamentale?) ma è il prodotto della dominazione dell'uomo sulla donna. Di conseguenza la "donna" non esiste, è un mito, e la teoria della differenza che rivendica uno specifico femminile in quanto valore non fa che rafforzare quel mito".
Con le parole di Wittig in The Straigth Mind: "Il corpo viene considerato un "dato immediato", un "dato sensibile", un "insieme di tratti fisici" appartenenti ad un ordine naturale. Quella che crediamo una percezione fisica e diretta è tuttavia solo una costruzione mitica e artefatta, una "formazione immaginaria" che reinterpreta i tratti fisici (di per sé neutrali quanto gli altri, ma marcati da un sistema sociale) mediante la rete di relazioni in cui vengono percepiti".
17) Rosanna Fiocchetto, La profana commedia di Monique Wittig, Postfazione a Virgile, non.