recensione diGiulio Verdi
I'm a single white female, looking for a girl like you
“Wish Me Away” è un documentario di un’onestà che lascia spaesati: anche le sequenze più evidentemente costruite non possono non generare simpatia per la vicenda di Chely Wright, cantante country sulla cresta dell’onda negli anni ’90 e tornata alla ribalta proprio con questo film, uscito in concomitanza col suo coming out pubblico (sulla copertina del numero del 5 Maggio 2010 di People Magazine)[1], insieme a un nuovo album e a un’autobiografia. Il film è stato girato nell'arco di tre anni.
Wright è la tipica all-American girl: cresciuta in una baitona del Kansas, con un fratello nell’esercito e una sorella iper-religiosa (ma anche lei stessa non scherza), cresciuta a pane e Patsy Cline. La scoperta della propria omosessualità viene ricordata dalla cantante come un’esperienza traumatica, come una tara di cui sentiva di dover portare vergogna, come la comparsa di un demone da sconfiggere (con la preghiera e il fidanzatino del liceo, chiaramente). Il tanto impegno profuso nel tentativo, poi andato a buon fine, di costruirsi una solida carriera musicale viene riletto come la maniera di compensare questa tara e risultare accettabile agli occhi di Dio e della società: l'impegno fu preso talmente sul serio che Wright si fidanzò con Brad Paisley, (tuttora) indiscusso campione della musica country, cantando con lui motivetti ispirati alla vita matrimoniale eterosessuale. Poi Wright racconta dell’unica relazione avuta con una donna – una relazione a lunghissimo termine e tenuta segreta nonostante una crescente motivazione della Wright ad accettarsi e uscire allo scoperto. È di nuovo Dio a intromettersi, a provocare la fine del rapporto e a diventare unico interlocutore della cantante, in una spirale di solitudine e malessere che si ripercuote anche sulla sua carriera. Con queste premesse, proseguire nella visione e costatare che Wright ha conservato un fortissimo sentimento religioso può risultare spiazzante.
La prospettiva cambia però radicalmente verso metà del film, quando Wright ricostruisce in maniera lucida e commovente il proprio tentato suicidio. L’onnipresenza divina e i residui di un'educazione religiosa permeano la straziante rievocazione della cantante, che inizia il racconto mentre si sta confrontando col suo padre confessore. Significativamente, è proprio al padre confessore che viene affidata la frase che evidenzia il mutamento di prospettiva: “God saved me”, gli dice la Wright. “You saved yourself”, la interrompe il pastore – e Wright annuisce, ritrovando il sorriso. Da questo momento in poi “dio” diventa una presenza sempre più marginale e decisamente con la minuscola, nonostante Wright non rinneghi la propria fede.
La seconda parte del documentario è anche quella più interessante: se nella repressione e nell’incapacità di accettarsi non abbiamo visto granché di nuovo, dopo la decisione di non premere il grilletto inizia il resoconto della progressiva liberazione della cantante – e soprattutto delle reazioni al suo coming out – fino alla partecipazione a un Pride e al finale finalmente felice. Particolarmente toccanti le parole del padre della cantante, che si rende conto dell’importanza del proprio ruolo e del proprio supporto, soprattutto in presenza di una madre glaciale (e indisponibile a qualsiasi collaborazione con i realizzatori del documentario). Più avvilenti le reazioni di parte dei fan e dell’industria discografica tutta: in questo frangente, il film viaggia sullo stesso binario di “Shut Up And Sing”, dedicato al declino e alla rinascita delle Dixie Chicks in seguito alle loro dichiarazioni anti-Bush. Anche a Wright giungono minacce di morte per via epistolare, anche Wright lamenta l’abbandono di buona parte dei fan che aveva in precedenza, anche Wright è incredula di fronte al mancato sostegno dei colleghi (“soltanto in due o tre”, ha dichiarato, “hanno espresso supporto pubblicamente" – si tratta di Mary Chapin Carpenter, LeAnn Rimes e le SHeDAISY – "… più altri tre o quattro in privato”). Wright denuncia anche il clima di paura, omertà e reticenza nel dichiararsi che vige nel mondo dello spettacolo, e in particolare a Nashville.
“Alcuni mi accusano di volerlo fare per pubblicità, per far parlare di me”, confessa la cantante: effettivamente è dal 2001 che non ha un singolo nelle prime posizioni della classifica. Come aggiunge subito, però, “il coming out sarà un suicidio dal punto di vista professionale”: lo è stato. Se la carriera della cantante rimarrà arenata nel limbo della medietà e della posizione 32 della classifica degli album country più venduti, pace: c’è comunque un lieto fine, dato che Wright ha sposato l’attivista Lauren Blitzer e sta per dare alla luce due gemelli. E ha anche un nuovo album in cantiere, con la speranza di trovare un pubblico nuovo.
[1] Una precisazione: sebbene Wright sostenga più volte di essere la prima artista country a fare coming out, c’erano già state k.d. lang nel 1984 e Kristen Hall degli Sugarland nel 2002.