recensione diGiulio Verdi
Big Miss Sunshine
“Here Comes Honey Boo Boo” segue le vicende della famiglia Thompson, nella piangente cittadina di McIntyre in Georgia. “Honey Boo Boo” è il nome di battaglia della deliziosamente corpulenta Alana, 7 anni appena compiuti e concorrente di concorsi di bellezza. Anna, la sorella maggiore, ha 17 anni ed è incinta. June, la mater familias, è sovrappeso, patita di cucina creativa e coupon, e a sua volta ha partorito Anna quando era minorenne. I soprannomi delle altre due figlie, Jessica “Chubbette” (“Cicciotta”) e Lauryn “Pumpkin” (“Zucca”), la dicono tutta sul loro conto. Concludono il quadro il padre di Alana, Mike, che vorrebbe finalmente sposare l’amata June – e lo zio Lee, fratello di Mike, gay e rustico.
“Here Comes Honey Boo Boo” si configura, a un primo sguardo, come la summa di tutti i filoni del reality: ci sono le gravidanze (per giunta adolescenziali), i concorsi di bellezza (con tanto di zio gay), la lotta contro il peso, la vita familiare e l’educazione dei bambini, l’eventualità di un matrimonio, la spesa coi coupon (con conseguente sepoltura in casa a opera dei cento pacchi di carta igienica comprati). La critica si è unanimemente espressa con toni oltremodo allarmati a proposito della giovane Alana: facendo leva su un’oscena e puritana retorica infantilista, molti hanno rivolto ai genitori l’accusa di sfruttamento minorile ed eccessivo lassismo – il che si sarebbe poi ripercosso sulle quattro figlie, tacciate in modo poco elegante di essere grasse e/o sconsiderate.
Quello che sembra essere sfuggito ai più è che “Here Comes Honey Boo Boo” è, innanzitutto, uno show televisivo: la presenza di un copione è evidente in molte occasioni. C’è di più: è anche un buono show televisivo, divertente parodia (e negazione, spesso politicamente scorretta) dei luoghi comuni connaturati al genere – grazie soprattutto alla prorompente verve di Alana, sempre pronta alla battuta autoironica e con scatti da attrice consumata – ed esaltazione del sogno americano per come si configura veramente. Grosso, grasso e gay è bello, insomma.
L’intento a metà tra celebrativo e dissacratorio appare evidente sin dalla breve sigla: l’idillio campestre, il quadretto familiare e la dolce melodia di una chitarra sono spezzati da un sonoro peto di June. L’umorismo scatologico torna in almeno un paio di occasioni in ogni episodio della serie – ma non è mai gratuito o fine a se stesso: interrompe spesso scene che stanno prendendo una piega vagamente seria o previene il rischio di melensaggine.
Il ribaltamento dello stereotipo della pageant queen è pari a quello operato da “Little Miss Sunshine”: la gioventù di Alana appare tutt’altro che sfruttata, quando partecipa gioiosa ai concorsi. “I have chicken nuggets power, and this is what I show to the judges”, dice Alana tenendosi la pancia con due mani e poi accartocciandola su se stessa, come per far parlare l’ombelico. Sorride e si sente come “un mirtillo gigante” quando indossa un costume da bagno blu sul palco. Quando finalmente, dopo mesi di sforzi e tentativi, riesce a vincere il premio “Preferita del pubblico”, la famiglia la ricompensa regalandole un maialino e dicendole che è bellissima com’è.
Le gioie della maternità e della famiglia sono completamente ignorate dai Thompson: June maledice il giorno in cui si è infatuata del primo ragazzo che l’ha messa incinta, e lo stesso fa Anna – a sua volta abbandonata dall’inseminatore. La gravidanza di Anna è dolorosa e complicata e, quando la bambina finalmente nasce, una delle sue mani ha un sesto dito. Anche in questo caso, il surplus diventa immediatamente punto di forza: Alana chiosa dicendo che “vorrei anch’io avere un dito in più, così potrei tenere più patatine in mano”.
Le avances di Mike nei confronti di June sono goffe e a buon mercato – e per questo tenerissime: in occasione del loro ottavo anniversario, regala alla compagna un’orrida statua raffigurante un cerbiatto comprata in un discount e le offre un pranzo spartano in una mensa self-service. June si fa bella per l’occasione ed è commossa dall’intraprendenza di Mike, ma tutta la famiglia è concorde: non abbiamo bisogno di un pezzo di carta e di una cerimonia costosa, stiamo già bene così. L’unità familiare è celebrata, ovviamente, con una cena a base di abbondante carne grigliata.
L’obesità è un altro tema centrale del reality: la cucina di June è quanto di più schifosamente americano si possa immaginare (spaghetti stracotti con quintali di burro e ketchup, barattoli enormi di gelatina allo sciroppo di frutta, carne di dubbia consistenza), ma la famiglia convive molto felicemente col proprio peso collettivo. In un episodio memorabile, l’Inno alla Gioia beethoveniano accompagna una sequenza di inquadrature al rallentatore (ma sempre più incalzanti) dei membri della famiglia che consumano avidamente il pranzo del Ringraziamento. L’ultima sulla faccenda la dice ancora una volta Alana, quando le sorelle maggiori e la madre lanciano l’idea di mettersi a dieta e di comprare delle verze, per sentire che sapore hanno. “What am I, a rabbit?!” sbotta Alana. “We’re not animals! We’re not animals, we’re…” – pausa drammatica e meditabonda – “… we’re people”.
Dello stesso genere di umanità e ribaltamento è investito il personaggio di Lee, o “Zio Poodle” come ama chiamarlo Alana. Col termine “poodles” (lett. “cagnolini”), in realtà, la bambina definisce l’intera popolazione omosessuale maschile mondiale. Poodle viene invitato da June a insegnare alla bambina alcuni passi di danza, in virtù della sua omosessualità e in vista dell’ultimo importante concorso della stagione (quello di cui sopra, di cui Alana sarà la vincitrice). Come il nonno di “Little Miss Sunshine”, anche Poodle si rivela un supremo cialtrone: Alana comincia a lanciargli dell’erba, e la lezione di danza degenera in una lotta con erba e fango che coinvolge l’intera famiglia. Più che la danza, sono i consigli incoraggianti di Poodle a funzionare: la bambina sale sul palco con fiducia nei propri mezzi e viene accolta dal fragoroso applauso della famiglia e di larga parte del pubblico. “Ain’t nothin’ wrong with being gay: everybody’s a little gay”: in una decina di parole, Alana è più eloquente e sensata di duemila anni di teologia. Alana, anzi, spera che anche il maialino Glitzy sia gay: quando la sorella Jessica le fa notare che non può essere lei a scegliere l’orientamento sessuale della bestiola, Alana ribatte piccata che Glitzy si sa gestire benissimo da solo (“You can’t tell a pig what to do with himself!”). Tra i poodles e Alana c’è un rapporto privilegiato: il giornalista Anderson Cooper ha più volte intervistato i Thompson e ha preteso di essere ritratto con Glitzy. Dal canto suo, Alana ha ringraziato i poodles del loro sostegno.
È facile liquidare con sdegno un reality e considerare “Here Comes Honey Boo Boo” un prodotto scadente e oltraggioso, fermandosi alla superficie. In realtà, si tratta di un irriverente ritratto di una famiglia felicemente abbondante e accogliente, di cui una spassosa scrittura e una sapiente regia comunicano l’autenticità – riuscendo al contempo a fare i conti con tutti gli stilemi del genere “reality” e a ribaltarne gli esiti.