saggio diGiorgio Danesi
La dottrina giuridica italiana di fronte all’omosessualità
La presente indagine muove da un'affermazione di Francesco D'Agostino: «Ciò che spetta al giurista è mostrare che il problema dell'omosessualità non è un problema di diritto, ma di fatto»[1].
Pare superfluo dimostrare il carattere ideologico di tale affermazione, fondata sulla pretesa di distinguere in termini assoluti l'ambito del giuridico dall'ambito dell'extra-giuridico: solo la camicia di forza dell'ideologia può pretendere di arrestare il continuo flusso di scambio tra diritto e società[2].
L'indagine si limita a mostrare sul piano fattuale come, di omosessualità, i giuristi di diverse competenze si occupano da sempre.
Oggetto d'indagine è la dottrina italiana degli ultimi decenni, che, in una prospettiva diacronica, viene ricondotta a tre distinti "filoni", corrispondenti ad aree disciplinari diverse.
Il primo filone (§1.), collocabile approssimativamente negli anni Sessanta e Settanta, è riconducibile all'area penalistica intesa in senso lato e comprendente la medicina legale, il diritto dell'esecuzione penale, la criminologia, il diritto penale canonico.
Il secondo filone (§2.), collocabile approssimativamente negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, è legato a contributi di diversa competenza, sollecitati da interventi della giurisprudenza interna o comunitaria, con l'apporto prevalente di giuslavoristi o di comunitaristi che annotano decisioni comunitarie in materia di diritto del lavoro.
Il terzo filone (§3.), collocabile negli anni più recenti, sembra delineare una progressiva appropriazione del tema da parte di studiosi di area civilistica, a partire dal diritto di famiglia e da una rilettura del dato costituzionale.
Ciascuno dei tre filoni si caratterizza per una diversa articolazione del rapporto tra il diritto e il fenomeno sociale considerato (il diritto contro l'omosessualità, il diritto senza l'omosessualità, il diritto per l'omosessualità), sulla base di diversi modi di intendere i singoli termini di questo rapporto (cioè il diritto e l'omosessualità).
Da un lato, vi sono diversi modi di intendere il diritto (la funzione del diritto), tradizionalmente sottesi a ciascuna delle aree disciplinari distinte: il diritto come strumento di repressione per l'area penale, il diritto come strumento di garanzia per l'area giuslavoristica e il diritto come strumento di promozione in alcune declinazioni di area civilistica.
Dall'altro lato, nei tre filoni considerati si succedono modi di intendere il fenomeno sociale in questione che sono diversi, sia sotto il profilo fattuale che sotto il profilo assiologico.
Sotto il profilo fattuale, si succedono tre modi di delimitare l'estensione del fenomeno denominato "omosessualità", inteso dapprima come un comportamento sessuale isolatamente considerato, poi come una condotta di vita associata a soggetti determinati e infine come un aspetto della possibile identità della persona.
Sotto il profilo assiologico, si succedono tre diversi modi di valutare il fenomeno, che, con terminologia mutuata dalla scienza medica, è inteso dapprima come una patologia contagiosa (che deve essere curata), poi come una patologia costituzionale incurabile e subclinica (che deve essere tollerata), e infine come (parte di) una fisiologia (che deve essere tutelata).
1. Un diritto contro i comportamenti omosessuali
1.1. Una patologia extra-giuridica: la medicina legale
La più importante enciclopedia giuridica italiana, il Novissimo Digesto Italiano, nel 1965 dedicava una specifica voce alla "Omosessualità", affidandola alla competenza di uno studioso di medicina legale[3]. La voce in oggetto è un buon punto di partenza per l'indagine: l'edizione successiva dell'enciclopedia e le enciclopedie edite in seguito non dedicheranno alcuna voce all'omosessualità[4], mentre sul piano dei contenuti il contributo ben riassume idee ed atteggiamenti documentati in molta dottrina, anche successiva, della stessa area disciplinare.
L'idea che l'omosessualità, sul piano extra-giuridico, costituisca una "patologia", idea già implicita nella scelta della competenza dell'autore della voce, è ribadita con notevole ricchezza lessicale: «anormalità», «anomalia», «inversione», «deficienza», «perturbazione», «difetto», «tara», «tendenza aberrante»[5]. Di conseguenza non mancano le teorie sull'eziologia della malattia, come quelle che ne individuano la causa in «gravi lesioni cerebrali», in tumori o in «gravi disturbi nutritivi»[6]. Non mancano nemmeno indicazioni sulla sua terapia: ad esempio, si ricorda come «si è tentato di combattere l'omosessualità, sostituendo i testicoli dell'invertito con altri di uomo sano, con risultati favorevoli»[7].
Com'è noto, l'idea dell'omosessualità come patologia è stata sottoposta a revisione in ambito scientifico: nel 1973 l'omosessualità è stata tolta dal D.S.M. (Diagnostic and Statistical Manual of the American Pyschiatric Association), e, seppure solo dopo vent'anni, nel 1993 l'O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità) è arrivata ad analoga determinazione[8].
Accanto a molte notazioni scientifiche[9] inattuali, la voce si distingue per il registro, del tutto inusuale per un'enciclopedia giuridica, con la presenza di facezie come «debolezza verso il sesso forte» o «libertà di... culto ai devoti di Onan»[10]. Tale registro rivela un atteggiamento inconsueto per un medico di fronte ad una malattia e ad un malato: un atteggiamento di scherno.
Peraltro non tutto ciò che è malattia in natura assurge a malattia per il diritto. Non c'è una voce "Morbillo" nel Digesto. Vi è quindi da chiedersi quali fossero le ragioni della patologizzazione giuridica dell'omosessualità, e se tali ragioni siano ancora rilevanti per il diritto e quindi suscettibili di sopravvivere alla "depatologizzazione" scientifica.
1. 2. Una patologia giuridica
1.2.1. Una patologia contagiosa: il diritto (dell'esecuzione) penale
Il diritto che per eccellenza cura le patologie giuridiche più gravi è il diritto penale. Nella relazione di Alfredo Rocco al codice penale vigente, in merito all'ipotesi di criminalizzare i comportamenti omosessuali, si legge: «Venne principalmente opposto che il turpe vizio, che si sarebbe voluto colpire, non è così diffuso in Italia da richiedere l'intervento della legge penale».
La motivazione più plausibile che spiega la mancata criminalizzazione è quella che i canonisti chiamano la "vitatio schandali"[11], che portò alla sostanziale disapplicazione della sanzione penale contenuta nel codice di diritto canonico in vigore fino al 1983[12]. In relazione a questa preoccupazione di censura vi è anche l'idea che la patologia sia contagiosa.
E', questa, un'idea molto diffusa tra i cultori del diritto dell'esecuzione penale. Torna alla mente Cesare Beccaria, che nel Dei delitti e delle pene scrive che «L'attica venere [...] ha meno il suo fondamento su i bisogni dell'uomo isolato e libero che sulle passioni dell'uomo sociabile e schiavo»[13].
Ecco dunque la «particolare pericolosità sociale dell'omosessualità, ben evidente in condizioni comunitarie di vita e di cui si sono specialmente occupate indagini psicopedagogiche e piscosociologiche»[14].
Una monografia di taglio psicopedagogico degli anni Settanta[15] distingue il caso del minore omosessuale internato in istituto dal fenomeno dell'omosessualità indotta dal contesto ambientale.
Circa il primo caso si osserva come «in realtà la legge possiede formule che permettono di internare il ragazzo omosessuale per "travestimento, esercizio di prostituzione o anche solo vagabondaggio, manifeste pose di irregolarità, ecc"»[16]. Tale cornice legislativa fu all'origine di prassi molto diversificate, come documenta una relazione del 1968 redatta da due assistenti sociali, che dà conto delle decisioni difformi con cui diversi tribunali per i minorenni avevano affrontato casi analoghi. Le autrici si chiedono «in che misura [sia] possibile stabilire quale peso abbiano nelle proposte e decisioni non solo le diverse interpretazioni scientifiche del fenomeno omosessuale, ma anche le proiezioni e i disagi che all'interno di ciascuno provoca questo tema, magari a livello inconscio»[17].
Circa la diffusione della pratica omosessuale negli istituti, un'ampia indagine pubblicata sempre negli anni Settanta da un medico carcerario e da un sociologo parla di «morbosa epidemia[18]» e conclude che l'ambiente penitenziario, «notevolmente predisposto e predisponente all'omosessualità», è «un focolaio attivo di ciò che un modello ancora resistente della nostra cultura considera un'anomalia e che, pervertendo la norma del più geloso rapporto tra i sessi, produce una incalcolabile serie di conseguenze magnetizzate alla criminalità»[19].
Ma il morbo può diffondersi anche fuori dai luoghi di segregazione: «l'abitualità dell'omosessuale che lo abbia reso notorio, fa sì che lo stesso diviene un pericoloso elemento di diffusione dell'omosessualità stessa»[20]. Ciò in quanto «l'omosessualità è un fatto di relazione e non individuale. Essa non si esaurisce nell'alterazione della psiche del soggetto anormale, ma reca, nell'ambito delle relazioni che comporta, il pericolo di operare corruzione. L'omosessuale è persona che tende a corrompere altri soggetti»[21].
Sulla base di queste considerazioni si giustificano proposte di criminalizzazione o di applicazione di misure di sicurezza volte a «paralizzare il più possibile la diffusione del fenomeno con le relative conseguenze nell'ambito della comunità»[22], isolandolo con strumenti come la diffida del questore[23], il foglio di via obbligatorio e la sorveglianza speciale della pubblica sicurezza.
Vi è da chiedersi quanto l'idea di un contagio fosse fondata, o se non fosse piuttosto legata ad un concetto di omosessualità che, coerentemente con le istanze di garanzia proprie del diritto penale, si riduce agli atti (omo)sessuali e ignora l'esistenza di persone omosessuali: omosessuali sono tutti e soli i soggetti che praticano determinati comportamenti sessuali[24].
Certo è che questa idea, in vasti strati dell'opinione pubblica, sopravvivrà anche al riconoscimento del possibile carattere "costituzionale" della presunta malattia[25].
1.2.2. Una patologia favorente: la criminologia
Altra ragione della "patologizzazione giuridica" dell'omosessualità, oltre alla sua presunta contagiosità, consiste nella sua asserita "potenza criminogenica"[26].
Ma nelle pagine della maggior parte dei sostenitori di questa tesi si assiste ad un curioso cortocircuito tra patologizzazione (giuridica e sociale) e potenza crimonogenica.
Un capitolo importante della letteratura criminologica sull'omosessualità è quello relativo alla prostituzione maschile. Da un lato «l'atteggiamento punitivo [...] aumenta la prostituzione omosessuale»[27]; dall'altro lato «questi prostituti indubbiamente tendono a profittare del carattere vergognoso dei loro rapporti col vero invertito, e, se questi è un uomo vulnerabile socialmente, [...] non raramente vengono messi in atto l'estorsione e il ricatto»[28].
Un altro tema ricorrente in letteratura è il cosiddetto "omicidio omosessuale", in considerazione della «maggiore frequenza delle morti improvvise od inaspettate e delle morti violente, che riguardano gli omosessuali maschi»[29]. Un'ampia casistica è documentata in due articoli pubblicati a più di trent'anni di distanza l'uno dall'altro. I due articoli sembrano concordare sull'interpretazione del fenomeno. Il primo contributo, risalente agli anni Sessanta, conclude che dalle osservazioni svolte «si è portati a pensare che l'omosessuale sia esposto a divenire vittima di reato [...] anche a causa della sua particolare personalità che può determinare nell'aggressore reazioni impreviste, basate soprattutto su una repulsione da questi avvertita verso l'omosessualità in genere e forse anche da un atteggiamento di condanna nei confronti di proprie e inconsapevoli tendenze omosessuali allo stato latente» [30]. Il secondo contributo, trent'anni dopo, ipotizza che «in sostanza, con l'uccisione del compagno omosessuale l'omicida vuole riaffermare la propria identità eterosessuale»[31].
Altri autori generalizzano questa conclusione: «E' evidente che la deviazione sessuale, dato l'atteggiamento di rifiuto della società generale, [...] tende ad isolare il soggetto che la pratica. [...] Ciò predispone l'omosessuale a comportamenti criminali, sia come autore di reato che come vittima»[32].
Insomma, la "malattia" in senso giuridico-sociale pare essere la società che patologizza e lo stesso presunto malato che, di conseguenza, patologizza se stesso.
1.2.3. Una patologia favorente: il diritto canonico
La storia dell'approccio canonistico al tema dell'omosessualità è ben riassunta nella voce Omosessualità (diritto canonico) curata da Alessandro d'Avack per l'Enciclopedia del diritto[33], dopo che negli anni Settanta questa storia si è quasi compiuta. Da problema penale, il fenomeno è diventato principalmente un problema di diritto matrimoniale. Se l'uscita del tema dal diritto penale è stata poi sancita dal venir meno del canone che criminalizzava la condotta omosessuale (al pari di altre condotte sessuali), il suo ingresso nella materia matrimoniale è stato invece determinato da una lenta evoluzione della giurisprudenza rotale, nell'ambito di una modificazione del contesto culturale complessivo. Se in un passato non lontano l'omosessualità in quanto tale era irrilevante ai fini della validità del matrimonio canonico[34], oggi essa costituisce una autonoma causa di nullità, anche se la sua sistemazione dogmatica è tuttora in corso di definizione. Tale evoluzione mostra con evidenza immediata un'evoluzione nella stessa definizione del fenomeno "omosessualità", con un progressivo spostamento di attenzione dagli atti sessuali alla persona dell'omosessuale.
L'evoluzione della dottrina può essere ricostruita brevemente a partire dai commenti ad alcune decisioni rotali.
Nel 1969 una prima nota dedicata allo «scabroso tema»[35] definiva l'omosessualità, «triste fenomeno», come «amore verso persone dello stesso sesso», ma poi si limitava a trattare il fenomeno della cosiddetta «omogenitalità», cioè «le forme sbrigliate anche sessualmente» che interessino «gli organi genitali e surrogati». Solo riguardo all'omogenitalità «si può e si deve scoprire se e quale incidenza abbia sulla validità del matrimonio». Così nell'articolo si parla non di «omosessuali» ma di «omogenitali», arrivando coerentemente ad affermare che l'orientamento omosessuale «vanifica la loro realtà organico-sessuale fino a ridurla a mera apparenza»[36].
La confusione tra genere (maschile o femminile) e orientamento (eterosessuale o omosessuale) è presente anche in una nota del 1974, dove viene erroneamente riferita alla sentenza rotale, che, al contrario, affermava che nell'omosessualità «il soggetto rivolge verso il proprio sesso le sue cariche erotiche senza porre in discussione la propria identità sessuale». Secondo il commentatore, invece, in tutti questi fenomeni (omosessualità e travestitismo, ermafroditismo e transessualismo) indistintamente «si sottolinea di solito un tratto comune e cioè, come si legge in sentenza, la stessa condizione psicopatologica di fondo, cioè di disorientamento ed incertezza di ruolo relativamente al sesso e al genere»[37].
Una prima apertura verso un rilievo, accanto all'elemento sessuale, anche dell'elemento affettivo si ha in una nota di poco successiva, dove si distingue tra «aspetto fisico-saziativo» e «aspetto affettivo-sentimentale» [38].
Nel 1984 un lungo articolo prende atto delle acquisizioni scientifiche, precisando che «affermare che l'omosessuale è incapace di volere il matrimonio, non vuole necessariamente dire che la sua condizione debba essere valutata alla stregua di una malattia mentale, del resto una tale valutazione spetta alle scienze mediche». Il pieno riconoscimento dell'omosessuale come persona e non come mero attore di comportamenti sessuali porta a concludere necessariamente che «per l'omosessuale è interiormente coatta una strada non matrimoniale» [39].
In conclusione due sono gli elementi di novità maturati nella dottrina canonistica.
Sul piano fattuale matura una diversa delimitazione del fenomeno "omosessualità", non più ridotta a meri comportamenti sessuali in sé considerati, ma sempre più radicato nell'identità della persona, anche se l'attenzione rimane concentrata sulla sessualità e non sull'affettività.
Sul piano assiologico, di conseguenza, si afferma l'idea secondo cui la persona omosessuale, più che un pericolo per il matrimonio, è un soggetto al matrimonio fondamentalmente estraneo. Ne consegue che anche questa possibile ragione di patologizzazione giuridica sembra venir meno, dopo quella legata alla presunta contagiosità e alla presunta potenza criminogenica.
2. Un diritto senza le persone omosessuali
2.1. L'omosessualità giuridicamente rilevante in quanto dissimulata: alcune note a sentenza
Se l'evoluzione della giurisprudenza rotale è stata accompagnata da una corrispondente evoluzione della dottrina, ad alcune aperture della giurisprudenza civile è invece corrisposto un atteggiamento di chiusura in alcuni annotatori di varia competenza[40].
Di fronte a decisioni in cui si riconoscono effetti giuridici alla convivenza di partner omosessuali, vi sono autori che, pur condividendo nel merito il dictum delle sentenze, sembrano tuttavia ritenere che tali forme di tutela vadano condizionate alla dissimulazione della (ritrovata) identità sessuale e affettiva della persona omosessuale.
Si consideri il caso di una sentenza che, applicando a due conviventi del medesimo sesso l'istituto dell'obbligazione naturale, utilizza termini e riporta fatti che esprimono indubitabilmente la sussistenza di un rapporto erotico-affettivo tra i due[41]. L'unico autore che si è occupato della sentenza nega risolutamente questa circostanza, fin dal titolo della sua nota: «Convivenza a scopo assistenziale tra uomini»[42].
La sentenza qualifica la convivenza in questione come «famiglia di fatto» ed afferma che quello in oggetto «era pacificamente un rapporto di convivenza more uxorio». Il commentatore, anziché portare argomentazioni contro questa qualificazione, semplicemente nega che il tribunale l'abbia usata: la convivenza more uxorio è «un argomento al quale la commentata sentenza si è richiamata a titolo esemplificativo volendo stabilire un'analogia con la convivenza fra coniugi, cioè fra persone di sesso diverso fra loro»[43].
Analoga operazione dissimulatoria viene proposta con riguardo ad una sentenza di merito che estende ad un convivente omosessuale la facoltà di astenersi dal testimoniare in un procedimento penale, facoltà prevista dall'art. 199 del codice per il coniuge e per «chi, pur non essendo coniuge, conviva o abbia convissuto» con l'imputato.
Secondo la sentenza il solo fatto della uniformità di sesso non può autorizzare a escludere la presenza degli «elementi essenziali del rapporto di coniugio», e cioè: «un legame affettivo stabile che includa la reciproca disponibilità a intrattenere rapporti sessuali, il tutto ricompreso in una situazione relazionale in cui siano presenti atteggiamenti di reciproca assistenza e solidarietà».
Un autorevole commentatore, dopo aver tacciato come «un po' sbrigativa e superficiale» «l'affermazione che l'identità sessuale fra l'imputato e il possibile testimone non pregiudichi il significato psicologico del loro rapporto ai fini dell'art. 199[44]», propone un itinerario argomentativo alternativo per garantire i medesimi effetti di tutela, che sono dovuti per «dovere di carità, di pietas»[45]. La proposta consiste in un'interpretazione estensiva della norma del codice di procedura penale, accostata analogicamente ad una norma contenuta nel codice di procedura civile (art. 51 n. 2), allo scopo di «considerare la relazione e convivenza di tipo omosessuale come assimilabile a chi è "convivente" (non necessariamente in senso sessuale) e "commensale abituale" con qualcuno», e non alla convivenza more uxorio tra persone di sesso diverso.
Anche in questo caso l'omosessualità è riconosciuta come rilevante giuridicamente solo in quanto dissimulata, stretta fra una dimensione sessuale negata (ma al tempo stesso enfatizzata: che significa «convivere in senso sessuale»?) e una dimensione "affettiva", che, se è definita «psicologicamente assai rilevante», in nulla pare distinguersi da quella che caratterizza qualunque situazione in cui si condivida la stessa mensa.
2.2. L'omosessualità giuridicamente irrilevante in quanto non dissimulata: il diritto del lavoro e il diritto comunitario
Se la giurisprudenza interna in tema di omosessualità è scarsissima[46], non così per la giurisprudenza comunitaria. Attenta al tema delle discriminazioni della persona omosessuale, tale giurisprudenza sembra tuttavia confermare l'irrilevanza giuridica dell'omosessualità in quanto non sia dissimulata ma riconosciuta nella sua dimensione affettiva, e quindi, tendenzialmente, nella dimensione per cui non coinvolge una sola persona ma due, cioè una coppia.
Anche in questo caso l'attenzione della dottrina italiana si è espressa prevalentemente con alcune note a sentenza, dedicate soprattutto a decisioni in tema di discriminazioni in materia di lavoro[47]. Ma in ambito giuslavoristico va segnalato anche un contributo monografico dedicato specificamente alla situazione italiana, l'unico lavoro in tema di omosessualità che sia supportato da un'indagine statistica[48].
Nelle note a sentenza si osserva che la lotta allo svantaggio derivante da «radicati pregiudizi verso condotte di genere non convenzionali come quelle di soggetti attratti da persone del proprio sesso» è «conforme ai valori dell'eguaglianza e dignità di uomini e donne tutelati dal legislatore comunitario»[49].
Osservazioni come questa autorizzano a valutare la possibilità di utilizzare categorie elaborate in relazione alle differenze di genere (maschile/femminile), applicandole alla differenza di orientamento sessuale[50].
Luigi Ferrajoli[51], ad esempio, propone un'interessante articolazione in quattro modelli delle possibili configurazioni giuridiche della differenza di genere. Il primo modello è quello della «indifferenza giuridica per le differenze» e si identifica con il cosiddetto stato di natura, in cui la relazione tra le diverse identità è affidato ai rapporti di forza pre-giuridici. Il secondo modello è quello della «differenziazione giuridica delle differenze», assunte dal diritto come status privilegiati o come status discriminati. Il terzo modello è quello della «omologazione giuridica delle differenze», in cui «le differenze [...] vengono [...] valorizzate e negate, ma non perché talune sono concepite come valori ed altre come disvalori, ma perché tutte sono svalutate e ignorate in nome di un'astratta affermazione di uguaglianza»[52]. Il quarto modello, quello della «valorizzazione giuridica delle differenze», si caratterizza per la libera affermazione delle differenze, in presenza di garanzie di effettività della loro eguaglianza giuridica.
Se sul piano della differenza di genere, il cosiddetto femminismo giuridico si è orientato dapprima verso il terzo modello, quello della eguaglianza formale con l'omologazione delle diverse identità, e quindi verso il quarto modello, quello della eguaglianza sostanziale con la valorizzazione delle diverse identità, sul piano delle differenze di orientamento sessuale, la situazione delineata parrebbe riconducibile al terzo modello.
Ma nelle note a sentenza in oggetto si precisa che il principio di non discriminazione, se «può sostenersi, senza dubbio, con riguardo alle disparità di trattamento che colpiscono il lavoratore individualmente considerato» non può sostenersi «altrettanto fondatamente [...] con riguardo alle disparità che riflettono la mancata equiparazione della relazione omosessuale a quella eterosessuale» [53].
In altre parole, le decisioni comunitarie «negano una vita familiare per la coppia omosessuale, riconoscono ai ricorrenti una vita privata in rapporto a tale vita di coppia, ma la giudicano poco "esigente" nei confronti delle restrizioni statali»[54].
Il mancato riconoscimento della coppia, sempre volendo utilizzare le categorie di Ferrajoli, riporta ad un modello diverso, il modello della «differenziazione giuridica delle differenze», che consiste «nella valorizzazione di alcune differenze e nella svalorizzazione di altre, e quindi nella gerarchizzazione delle differenti identità» da parte dell'ordinamento giuridico[55].
Insomma, il limite della coppia è un indizio del fatto che l'apparente indifferenza del diritto per l'orientamento sessuale non è interpretabile nei termini della indifferenza per la differenza ma come una mancata (perché politicamente impraticabile) svalorizzazione.
Questa posizione è ben riassunta dalle parole con cui un autorevole civilista esprime le ragioni per cui si giustifica il limite relativo alla coppia: posto che «le pratiche di vita prescelte» sono «di per sé del tutto scevre di qualsiasi dannosità sociale e devono, pertanto, essere oggetto di rispetto», «interventi legislativi di favore assumerebbero inevitabilmente il valore di "approvazione" della omosessualità»[56]. Chi teme di "approvare", non è indifferente, ma, evidentemente, disapprova.
3. Un diritto per le persone
3.1. L'omosessualità come fisiologia: dal diritto costituzionale al diritto di famiglia
Negli anni più recenti, per il tramite del diritto comunitario e del diritto del lavoro, il tema dell'omosessualità si va progressivamente spostando anche nella considerazione della dottrina italiana dall'area penalistica all'area civilistica, riconoscendo pienamente la persona omosessuale come "civis".
Fondamentale, in questo processo, è una più attenta lettura del dato costituzionale. L'articolo 2 della Costituzione afferma che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità». Stefano Rodotà si chiede: «Non siamo di fronte a un impedimento al libero sviluppo della personalità quando si nega o si reprime la condizione omosessuale, nella dimensione individuale come in quella sociale?»[57]. Secondo Rodotà, «si tratta di partire dal riconoscimento del diritto di identità sessuale, come momento costitutivo della personalità. E proiettare questo dato nella dimensione affettiva, del legame sociale»[58].
Si rifiuta, insomma, la dicotomia tra dimensione privata e dimensione pubblica, tra dimensione individuale e dimensione di coppia. Il mancato riconoscimento della coppia è causa infatti di «restraint of self confidence»: «la coppia in cui io mi proietto e mi riconosco perde di valore non solo agli occhi del mondo ma anche agli occhi miei stessi e a quelli del mio partner»[59].
Ma tra gli studiosi italiani di diritto di famiglia i contributi in argomento sono pochi e quasi tutti nell'ottica del diritto comunitario o comparato. Altrove, al contrario, il tema della tutela giuridica della convivenza tra persone dello stesso sesso è oggetto di grande attenzione in dottrina, oltre a costituire «l'oggetto di attività legislative e di pronunce giurisprudenziali il cui numero non può che stupire il giurista italiano»[60].
Qualcuno interrogandosi su questa indifferenza dell'ordinamento italiano afferma: «Il diritto italiano contrasta il fenomeno, appellandosi alla natura e ai suoi modelli. E' assai difficile, però, che un fenomeno esistente in natura sia innaturale. Al più si potrà sostenere che la relazione omosessuale è un fenomeno diverso dalla relazione eterosessuale. Ciò, peraltro, non esclude che almeno alcune delle esigenze proprie delle relazioni eterosessuali appartengano anche alle relazioni omosessuali. Certamente il diritto è libero di aderire o meno a queste esigenze, ma non può legittimare questa libertà in nome della natura»[61].
L'appello alla "natura" è in effetti il più diffuso, anche se spesso appare come un mero espediente retorico, conducendo a tautologie del tutto evidenti.
Peraltro, anche tra gli autori più ostili ad un riconoscimento della coppia unisessuale, non mancano distinguo su questo uso retorico del concetto di natura, come in chi osserva che «le pratiche di vita [...] degli omosessuali [...] devono essere oggetto di rispetto, quand'anche le si ritengano "contro natura", valutazione delicatissima che presuppone, in ogni caso, una concezione soggettiva e selettiva, e quindi convenzionale, di che cosa vada considerato "conforme" a quel che si intende per "natura"»[62].
Ma tutti gli autori contrari ad una legislazione a tutela della coppia omosessuale, pur dichiarandosi rispettosi della singola persona omosessuale, sembrano indirettamente confermare questo nesso tra il singolo e la coppia. Infatti finiscono per far rientrare dalla finestra (dalla coppia) ciò che a parole era stato cacciato dalla porta (dal singolo), e cioè la patologizzazione dell'omosessualità, sia in senso extra-giuridico che in senso giuridico.
In primo luogo, torna l'idea di una patologia extra-giuridica, di cui però ora si occupano dei giuristi, non più dei medici legali o degli psichiatri forensi. Con l'effetto di qualche approssimazione in discorsi che vorrebbero essere scientifici.
Così si parla di «possibili esiti morbosi da un lato di possessività e dall'altro di soggezione» nella coppia[63]. Per altri «a giudizio di molti psicologi l'omosessualità nasce da un fortissimo bisogno di onnipotenza, che a sua volta si radica in un profondo disagio psicologico: ciò è causa della frequente instabilità delle coppie omosessuali» e di uno «stile di vita caratterizzato quasi sempre dall'irregolarità della condotta e da incontri solo occasionali», proprio di chi «vuole o sente il bisogno di vivere nella provvisorietà»[64]. Altri parlano apoditticamente di «ambulatorietà delle pulsioni omosessuali» (sic!)[65].
L'unico lavoro che muove da un'indagine sociologica, e non da stereotipi, pare giungere a conclusioni diametralmente opposte: «questi risultati, concordemente con quanto ottenuto da precedenti indagini sociologiche, sembrano smentire in maniera molto netta gli stereotipi sull'omosessualità vista come luogo della promiscuità sessuale, dell'instabilità e della non procreazione», mentre «la difficoltà a formare una coppia omosessuale stabile [...] deve senz'altro essere messa in relazione con la somma complessiva delle condanne sociali» [66].
L'omosessualità del singolo era poi considerata una patologia in senso giuridico, e ciò innanzitutto in quanto supposto fattore criminogenico. Ora qualcuno pare spostare il discorso sulla coppia unisessuale, che deve essere rispettata «ovviamente ove sia scevra di condizionamenti e violenze sia fisiche che psicologiche»[67].
Ma la coppia omosessuale, come già il singolo, è vista soprattutto come una patologia contagiosa e antimatrimoniale, in ciò superando anche le acquisizioni dei canonisti che avevano portato a considerare la persona omosessuale come semplicemente estranea al matrimonio. Ad esempio vi è chi afferma che iniziative come le note Risoluzioni del Parlamento Europeo producono come risultato «una specie di azzeramento del valore etico dell'istituzione famigliare fondata sul matrimonio»[68], per qualcuno paradossalmente motivato da «un mero desiderio di mimesi della coniugalità eterosessuale»[69]. Per altri la patologia è tale da mettere in pericolo «la sopravvivenza della stessa società umana»[70].
In alcuni autori, poi, la nuova patologizzazione dalla coppia pare investire addirittura il legislatore comunitario, che viene antropomorfizzato e, solo in quanto si occupi di coppie di persone dello stesso sesso, è rappresentato con alcuni tratti tipici dell'omosessuale stereotipato. Così un Parlamento europeo «molto esibizionista» è stato mosso dal «tentativo di suscitare comunque clamore» nel produrre risoluzioni, in cui «la parte che ha suscitato scandalo [...] di certo è stata volutamente inserita anche con accenti provocatori»[71]. Un Parlamento che «sembrerebbe proprio [...] si sia lasciato prendere la mano ed abbia partorito nuove ed azzardate nozioni di famiglia e matrimonio», un «mostrum (sic!) privo di qualsiasi valida giustificazione»[72].
3.2. L'omofobia come patologia: il diritto civile
In ambito extra-giuridico, la depatologizzazione dell'omosessualità si è accompagnata alla patologizzazione dell'atteggiamento di avversione nei confronti delle persone omosessuali, denominato omofobia[73].
Come visto, il fenomeno è da tempo noto ai criminologi, che nell'omofobia hanno individuato la reale causa della presunta valenza criminogenica dell'omosessualità, arrivando ad affermare che questa circostanza «indica i possibili indirizzi di trattamento e di prevenzione» [74].
Ma anche per l'omofobia, come già per l'omosessualità, ci sono i primi segni di un passaggio di consegne da giuristi di area penalistica a giuristi di area civilistica.
E' il caso in particolare di una recente opera collettanea sul danno esistenziale, in cui è contenuta una trattazione molto analitica di ipotesi di danno nei confronti della persona omosessuale derivanti da atteggiamenti ostili[75]. L'esposizione della casistica procede secondo un criterio cronologico esistenziale, che segue idealmente lo «svolgimento della personalità dell'omosessuale» nelle varie «formazioni sociali» con cui entra successivamente in relazione[76]. La trattazione comincia con la famiglia, con le limitazioni alla privacy e le terapie coatte; prosegue con la scuola, con i possibili torti subiti nei rapporti tra studenti e nei rapporti tra studente e insegnanti; quindi si occupa del mondo del lavoro, con le possibili discriminazioni in sede di assunzione e di progressione di carriera e le possibili molestie; infine affronta i rapporti sociali in genere, in particolare in relazione alla coppia unisessuale.
Dalla rassegna emerge quanti siano effettivamente i possibili «impedimenti al libero sviluppo della personalità» denunciati da Rodotà. Spesso questi impedimenti risiedono in semplici "omissioni", non meno dannose però dei comportamenti commissivi: la mancata individuazione di modelli omosessuali come positivi, la rimozione dell'omosessualità nella scuola, il mancato riconoscimento giuridico della coppia. L'omofobia è anche censura.
Così si riconosce francamente come sia problematico attivare forme efficaci di tutela nel contesto di un ordinamento giuridico il quale «non conosce nemmeno la parola omosessualità»[77].
Allora è forse il caso di parlare di "omofobia legale", non solo per quei legislatori che criminalizzano determinate condotte sessuali[78], ma anche per quelli che semplicemente ignorano l'omosessualità, escludendo che possa assurgere a «problema di diritto». E' appena il caso di ricordare come per secoli anche la condizione dello schiavo, della donna o dell'ebreo sia stata prevalentemente considerata un problema di fatto, di fronte al quale il legislatore poteva e anzi doveva restare beatamente indifferente.