Sembra passato un secolo, eppure risalgono a soli cinque anni fa i fasti della mostra “Vade Retro: arte e omosessualità”, curata da Eugenio Viola e Vittorio Sgarbi.
Mostra mai aperta a Milano dopo il 9 luglio 2007, giorno della presentazione su inviti alla stampa.
Poi trasferitasi a Firenze, dove dal 26 ottobre rimase aperta al pubblico per circa due mesi. Lì, tra l'altro, ebbi la fortuna irripetibile d'esporre, pure io, una mia fotografia tra Cattelan e Pierre et Gilles.
A Firenze fu un successo, eppure non venne più replicata in altro loco. Troppo era il rischio di vedersi nuovamente trascinati in beghe politiche neo-fascio-cattoliche. Magari con enormi perdite finanziarie. Basti pensare che per il catalogo già stampato Artematica, produttrice della mostra, perse 98mila euro a Milano.
Mi ricordo che già dal 2006 giravano “voci” che il famoso gallerista Alessandro Riva intendeva fare a Milano una mostra a “tematica” gay.
Al progetto s'affiancò il giovane napoletano Eugenio Viola.
Nel frattempo Riva fu denunciato, per altre vicende, e messo fuori-gioco agli arresti domiciliari.
Nel progetto gli subentrò Vittorio Sgarbi. Da poco eletto Assessore alla Cultura a Milano, come contentino, dopo essersi dovuto ritirare dalla candidatura a Sindaco, per favorire l'ascesa della moralista-catto-berlusconiana-miliardaria Letizia Moratti.
Il progetto della mostra proseguì, giusto per dimostrare che anche a Destra si era “liberali”. Tant'è che sul catalogo della mostra figurava persino un'introduzione scritta dall'improponibile esperto d'arte e sociologia gaya Ignazio LaRussa.
Fu affiancato da un altro scritto della deputata trans Vladimir Luxuria, giusto per ingraziarsi le sinistre, in un momento in cui il Vaticano cercava in ogni modo di ricattare i politici italiani per non far passare la legge sui PACS.
Per non dire del disgusto, generato solo un mese prima, dal negato patrocinio del Comune di Milano al festival del cinema gay a Milano.
Ma torniamo indietro un bel po' di mesi, nell'autunno del 2006, quando recandomi nello studio dell'amico Paolo Schmidlin (nato nel 1961 a Milano) in Piazza Vetra, ritrovai il tavolo da lavoro e pareti tappezzate da ritagli con foto del papa Ratzinger. In diverse espressioni, specie col caratteristico risolino diabolico. Il tutto abbinato con fogli di riviste pornografiche tedesche con travestiti un po' in là con gli anni.
Al ché io esclamai: “Stavolta oltre che scomunicarti ti denunceranno per vilipendio alla religione, poi ti scomunicano e chissà cos'altro!”. Infatti il nome di Paolo era stato, pochi mesi prima, legato ad uno “scandaletto internazionale” per la sua scultura dal titolo “Porno Queen”. Un busto della vecchia Elisabetta II a seno nudo, con le mani d'un giovanotto che la stavano brandendo da sotto, alludendo al fatto che Sua Maestà stesse facendo sesso, pur mantenendo la sua caratteristica impassibilità sul volto. Ricordai a Paolo che con la Regina l'aveva scampata ma anch'essa era il capo della Chiesa Anglicana, equivalente del nostro papa.
Seppi che la nuova scultura si sarebbe chiamata “La Josephine”, alludendo al nome di battesimo di Joseph Ratzinger.
Vidi la statua nascere, giorno dopo giorno. Ero coscio che stava nascendo qualcosa che sarebbe rimasta “simbolo” di quel periodo storico di repressione di Destra nei confronti dei diritti civili dei gay.
Ironia della sorte per uno scultore, totalmente anti-Vaticano com'era Paolo ma anche di fede completamente berlusconiana.
Schmidlin è uno scultore autodidatta, pur avendo ottenuto immediata fortuna ma solo da quarantenne il vero successo, aveva iniziato come pittore, costumista e scenografo, pure con incursioni nella pubblicità e come gallerista promotore di talenti negli anni '80. Tutti aspetti che sarebbero stati preziosi per il suo futuro successo.
Valente pittore iperrealista e costumista pignolo, sarebbe diventato celebre per la minuzia della coloritura delle sue statue. Dai minimi difetti dell'incarnato, allo sguardo di luce vivida nelle pupille, fino alla resa illusionistica di capigliature e tessuti.
Accanimento “figurativo” più unico che raro in Italia. Un'artigianalità quasi ossessiva. Davanti alle sculture di Schmidlin ci si ferma per forza, prima per lo shock, poi per una lettura d'ogni cesello ed infine per una lenta decifrazione dell'opera e sul “perché” della sua genesi.
Lo Schmidlin usa una grazia quasi Rinascimentale, sebbene scolpisca sempre dei “mostri”.
Cioè dei personaggi perennemente borderline col ribrezzo. Dalla sessualità ambigua, esibita fino alla gerontologia, sul limite del grottesco di corpi disfatti dall'usura e da chirurgia estetica, eppure totalmente felici e soddisfatti d'essere tali. Ruga dopo ruga.
Schmidlin è anche l'unico caso italiano d'uno scultore totalmente “Camp”. Cioè quella categoria del Kitsch volontario, fondata su codici d'estetica e contenuto decifrabili solo dalla Cultura Omosessuale.
Non a caso il termine Camp indica proprio un “campetto”, una cerchia ristretta di amici “parrocchiani”: chi non è gay difficilmente ne coglie le sfumature e riesce a sorriderne.
E' una cultura underground, nata per autodifesa da quella “ufficiale” etero. Un modo per sopravvivere con auto-ironia.
Inizialmente si sviluppò come lettura alternativa intorno al vecchio cinema hollywoodiano, alla musica d'Opera o Pop, piena di riferimenti barocchi e atteggiamenti culturali condivisi dai gay in tutto il mondo occidentale.
Per sua natura sotterranea, fu una forma di ribellione elitaria ad un certo tipo di repressione.
Il Camp è un'intelligenza che corrode ed implica uno smascheramento. Cioè mostrare una Realtà, più Vera, dietro la realtà di facciata ufficiale propinata dalla Cultura “etero”. Oggi che anche la Cultura Gay è uscita largamente allo scoperto, al cinema, televisione e nella moda il Camp ha però perso un po' del suo smalto d'élite.
Di conseguenza, il Camp è stato in parte assorbito ed assimilato anche dalla cultura ufficiale.
Così le opere dello Schmidlin, più che per opere Camp, i critici preferiscono elogiarle per la loro perfetta artigianalità e farne una lettura superficiale.
Lodandone solo la “trasgressione” e rappresentazione unofficial di vecchie attrici prossime alla follia ( Bette Davis), ingioiellate ma quasi in corsia ospedaliera (Gina Lollobrigida, con tanto di cannette per l'ossigeno nel naso) oppure mantenute nella giovanile bellezza ma già cadaveri in rigor-mortis (Marilyn Monroe nella bara). Aspetti questi, a mio parere, assai superficiali nell'opera di Schmidlin ma totalmente Camp nello loro rilettura.
Dietro ogni statua s'annida un sorrido beffardo, che dissacra e corrode. Soprattutto per il ritratto scandaloso e grottesco che fece a Ratzinger.
Schmidlin usa sempre una tecnica improvvisata, quasi da vasaio, per le sue statue. Modellandole dal basso verso l'altro, già vuote, proprio come per un vaso. Per questo aveva sempre fatto sculture solo di mezzibusti, soprattutto senza gambe nude, per motivi “statici”. Ed infatti, volendo ritrarre Ratzinger in autoreggenti di pizzo la realizzazione fu ardua. Per almeno tre volte la statua s'accasciò su se stessa implodendo, per via della pancia troppo tonda e vuota. Altrettante volte ruzzolò in terra la testa, troppo pesante per il piccolo collo e soprattutto perché spostata dal baricentro.
Ho visto Paolo piangere lacrime vere.
Alla fine soddisfatto disse:”Sono sicuro che questa statua mi darà poi tanta soddisfazione e successo proporzionati alla fatica per farla!”. E così fu.
Il corpo fu modellato sulle foto scattate ad un anziano parente, la mutandina macchiata di pipì fu copiata da una rivista porno per gerontofili. Idem per gli autoreggenti.
Fui io a suggerire di decorare la giacchetta con motivi giapponesi (presi da un libro di tattoos) con pesci, perché alludevano alla simbologia del Cristo.
Poi qualche giornalista, in seguito, avrebbe anche inventato che i due fiocchetti dorati sugli slip erano fatti come chiavi di San Pietro e l'anello d'oro al dito altro non era che il sigillo papale.
E' sicuro che nessuno si sia soffermato sui difetti della statua, cioè con un braccio che sembra troppo corto se visto di lato, le mani troppo piatte al metacarpo e il ciuffo del caschetto che non cade in verticale. Fu proprio per mascherare tale difetto che io suggerii allo Schmidlin: “Mettigli una mollettina che fa un po' sbarazzina. Fattene prestare una dalle tue nipoti con Hello Kitty e copiala!”. E fu così che poi il ritratto venne genialmente ribattezzato “Miss Kitty”.
Da bravo conoscitore, Paolo spedì per il catalogo di “Vade Retro” una foto di lato della statua, in cui era poco visibile la somiglianza col Santo Padre. Inoltre la cassa con la statua fu consegnata alla sede della mostra, il 9 luglio, poche ore prima dell'inaugurazione. Esplose il panico, pochi minuti dopo era già prevista una conferenza stampa e la notizia trapelò.
Il resto è storia ed è stato raccontato da Sgarbi nel suo libro “Clausura a Milano e non solo”(Bompiani, 2008).
Si decise di mettere una benda di stoffa nera sugli occhi di “Miss Kitty” per renderla irriconoscibile. Subito Schmidlin acconsentì e dichiarò al “Giornale”: “Il papa? Io volevo fare solo un po' d'ironia. Mettiamogli pure una benda, non voglio attaccare nessuno. La mia ricerca artistica va in tutt'altra direzione. Non m'interessa la polemica per finire sui giornali”.
Nella storia d'Italia era la prima volta che si censurava un'opera d'Arte e tutti gli altri artisti s'arrabbiarono, dicendo che un vero artista avrebbe dovuto battersi per i propri ideali.
In seguito, giorni dopo, la Moratti avrebbe preteso l'eliminazione di altre 10 opere. Intanto la mostra aprì su invito alle ore 19:30 e la folla s'accalcò intorno a Miss Kitty ricoprendola di sghignazzi e talvolta d'epiteti assai coloriti. Era il vero ritratto d'una vecchia sgualdrina emancipata ed esibizionista.
Prima della chiusura io rubai la benda. Poi in pizzeria, io e Paolo da soli, gliela mostrai. “Sei pazzo?”-mi disse-”Domani tutti penseranno sia stato io!”. In seguito me la feci anche autografare ma la mostra non aprì più i battenti.
Tutti i mass-media ne parlarono. Tre giorni dopo, al party d'inaugurazione di un'altra mostra di pittura voluta da Sgarbi a Palazzo Reale, scoppiò un altro scandalo. Un americano, amico dell'artista italiano che si fa chiamare “Greta Frau”, si spogliò in mutande in mezzo alla folla per protesta contro la chiusura di “Vade Retro”. Subito si scatenò un putiferio orgiastico gay, in cui Sgarbi sguazzava felice e che io fotografai.
Il giorno dopo pubblicai tutto su Dagospia e poi in prima pagina del “Corriere della Sera”. Nel frattempo Sgarbi aveva dichiarato che pur di togliere di torno “Miss Kitty” l'aveva comprata a 27mila euro e portata via.
Cosa assolutamente non vera ma tale frase bastò per far quasi triplicare le valutazioni di Schmidlin sul mercato.
Il 13 luglio fu fatto un sit-in di protesta di fronte ai portoni chiusi della mostra, con tanto di celebri graffito-artisti etero milanesi che si calarono le mutande di fronte alla TV.
Erano presenti anche i miei amici e grandissimi artisti Livio Scarpella e Agostino Arrivabene. Quest'ultimo con un cetriolo appeso al collo che si sgranocchiò, in loco, all'ora di pranzo.
Presenti anche Paolo Schmidlin, Paolo Cassarà, Alfredo Cannata e Barbara Nahmad.
Alla fine furono gli artisti e i prestatori, sentitisi offesi, a non voler più dare le loro opere. Quelli furono giorni di battaglie, di furori, solidarietà e passione artistica inimitabile, forse in Italia accadute solo decenni prima durante la Contestazione alla Biennale di Venezia. Non riguardava più una piccola élite ma tutta la nazione e con quotidiani squassi politici tra destra e sinistra. Tra l'altro sotto gli occhi del mondo intero.
Mesi dopo la mostra si fece a Firenze.
La terracotta di “Miss Kitty”, in magazzino da tempo, arrivò danneggiata e Paolo dovette ritoccarne il colore pochi minuti prima dell'apertura.
La statua fu esposta, in maniera assai da “ragazza in vetrina”, dietro un'ambigua tenda bianca e per vederla bisognava scostarla. L'effetto fu ancora più ambiguo che mettergli una benda sado-maso.
Lì davanti Schmidlin si fece fotografare anche col deputato PD Franco Grillini.
Fu un successo, fece stupire e sghignazzare migliaia di persone.
Mesi dopo “Miss Kitty” fu riconsegnata all'autore. Una versione in bronzo, con piccole varianti di coloritura, fu invece venduta ad un museo spagnolo.
L'originale resta sepolto ancora oggi dentro una cassa nello studio dello Schmidlin. Come una pericolosa arma atomica disinnescata che ormai non fa più paura a nessuno. Benché in Italia ben poco sia cambiato per i gay.