recensione diGiovanni Dall'Orto
Lettere da Sodoma [1977]. I dolori del giovane Inwerther...
Di questo romanzo epistolare è rimasta impressa nella mia memoria più che la vicenda stessa (insulsa), la demolizione sistematica (due pagine piene in formato tabloid) apparsa su uno dei primissimi numeri del primo periodico gay italiano, "Fuori!".
Perché se la vicenda in sé di Lettere da Sodoma non è degna di memoria, lo fu al contrario il fatto che qualcuno, finalmente, si fosse ribellato all'andazzo per cui in Italia uno scrittore omosessuale riusciva allora ad essere stampato e diffuso da un grande editore solo se dava dell'omosessualità un'immagine calunniosa, disperante, ostile. Tanto che sarebbe stato meglio intitolare il presente romanzo Lettere dall'inferno.
In effetti l'editore di Lettere da Sodoma, tutto gongolante, in copertina promette alla zentile clientela: "Amori irrisolti e avventure senza speranza di un 'diverso'". Una frase che non ha bisogno di alcun commento ulteriore.
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La vicenda, in sé, è esile, ed oltre tutto è la stessa identica medesima sputata ugualissima (uff!) che si ripete senza varianti, ossessivamente, in tutti i romanzi di Bellezza (oltre che nella sua vita privata): un uomo cerca l'amore attaccandosi a prostituti, drogati, delinquenti, che ovviamente possono dargli al massimo il corpo, ma non certo sentimenti amorosi.
In particolare è innamorato cotto di Luciano, ragazzetto sbandato e senza famiglia, col vizietto delle droga e con la prostituzione nel passato, probabilmente omosessuale a sua volta, che lo lascia e lo prende come uno yo-yo. Da qui le sofferenze indicibili del protagonista, Marco, che seguiamo attraverso le lettere che scrive agli amici, e che riceve da loro.
Attorno a Marco, testimoni e partecipi della sua micidiale nevrosi, amici altrettanto nevrotici e maligni.
Ce n'è di che spingere chiunque al suicidio... e in effetti Bellezza al suo Marco non risparmia nemmeno il suicidio finale... ovviamente!
Leggendo queste lettere colpisce il fatto che il protagonista non possa fare a meno della sua sofferenza perché è palesemente masochista, ed è sessualmente attratto dall'umiliazione.
Ora, Bellezza fu un masochista, e non ebbe paura a confessare il suo bisogno di farsi urinare e defecare addosso (meglio se da qualcuno che avrebbe potuto tagliagli la gola per mille lire) per poter godere. Non sono scelte che io raccomanderei a chicchessia, né che m'ispirino personalmente, ma nel suo letto ognuno è libero di far quel che gli pare.
Le cose cambiano però quando, a causa del proprio narcisismo che porta a ritenersi il centro del mondo (difetto di cui Bellezza soffrì), si presenti quanto accade a sé come LA condizione dell'intera "Sodoma". Cosa che Bellezza ebbe il torto di fare, e rifare, e rifare...
Con grande soddisfazione dell'establishment eterosessuale, che in lui vedeva la conferma, e la confessione piena, delle colpe di Sodoma.
Probabilmente, se Bellezza avesse scritto le Lettere dal mio inferno o Lettere da un inferno privato (alla Hervé Guibert, o alla Cyril Collard) lo avrei letto con maggior distacco. Purtroppo però egli pretese di farsi portavoce (fin dal titolo di questa opera) del mondo omosessuale, in un'epoca in cui il mondo omosessuale di portavoce veri non ne aveva.
Credo quindi che faticherò sempre a superare il risentimento che suscitò in me diciottenne il fatto d'essere rappresentato da lui, che riusciva a propormi solo "amori irrisolti", "avventure senza speranza" e per finire il suicidio. Oltre tutto, a diciott'anni all'amore ci si crede ancora!
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Ciò premesso, trascorsi tanti anni, ora mi è comunque possibile riguardare Bellezza con un occhio diverso. Notando che in parte non ebbe colpa di ciò che io gli ho appena addebitato. Ad esempio, non fu certo colpa il fatto d'essere stato uno dei pochissimi omosessuali (si contavano su due mani) che osassero presentarsi apertamente come tali, nell'Italia del 1972. E se solo la sua voce risuonò, ciò avvenne anche perché non se ne sentivano molte altre... e nemmeno questa è una colpa.
Bellezza fu anzi, a modo suo, un poco "militante", come testimonia la sua amicizia con Massimo Consoli (a cui è dedicato il suo primo libro, L'innocenza).
Purtroppo però fu anche una personalità profondamente nevrotica (come del resto molti dei primissimi militanti gay: la "ragionevolezza" dissuadeva infatti dal combattere per i diritti gay; per pretenderli occorreva essere matti... e così avvenne) e ciò smorzò molto il valore di ciò che aveva da dire sull'omosessualità.
Forse allora, dopo la sua morte, per apprezzarlo occorre ormai leggerlo in prospettiva storica, e non come uno scrittore attuale, cosa che non è più. Ormai è solo il documento di un'epoca ormai passata. Perché (a meno d'essere masochisti!) i suoi libri hanno tutto, ma proprio tutto, per risultare sgradevoli: i sensi di colpa traboccanti, l'odio di sé, il disprezzo verso il mondo di "Sodoma", l'inumano uso dei ragazzi come oggetti o giocattoli sessuali, e soprattutto l'untuoso alibi del maledettismo, che spaccia il masochismo per protesta estetico-esistenziale contro l'ipocrita società borghese!!!
Tuttavia Bellezza ha pochi rivali come testimone del tormento (contraddittorio e velleitario) d'un periodo di passaggio, di una generazione di omosessuali nata cattolica e cresciuta comunista (e putroppo, spesso, anche morta di Aids).
E i suoi libri rivelano, con le loro contraddizioni, quanto sia stato difficile, per il mondo gay italiano, uscire dalla melma d'una cultura che lo imprigionava: un processo che ha richiesto quasi tre decenni.
Se poi si giudica dal punto di vista artistico, Bellezza fu un romanziere monocorde, che ha scritto troppe volte lo stesso romanzo con (quasi) solo i titoli cambiati, ma in compenso come poeta ha pubblicato, nelle sue due prime raccolte, alcune tra le cose più potenti a tema gay mai edite in Italia. Forse perché la poesia tollera l'ossimoro (la "contraddizione in termini") come semplice immagine retorica, mentre il romanzo lo rileva come "contraddizione". (E tutta la vita di Bellezza fu un ossimoro fatale: cercare la felicità attraverso ragazzi che riuscissero a renderlo infelice).
Le sue due prime raccolte poetiche, quelle che suscitarono l'interesse del suo maestro e protettore Pasolini (che oltre tutto condivideva i suoi gusti sessuali), sono un grido di protesta, e disperazione, di un'anima imprigionata in un Desiderio che non ha scelto, ma che condiziona la sua vita spingendolo alla costante "ricerca dell'assassino". Sono un'analisi spietata, e quindi coraggiosa, della propria anima e delle sue catene e contraddizioni, delle sue disperazioni e dei suoi dolori lancinanti, ma al tempo stesso anche un grido d'aspirazione all'amore (a diciott'anni anche i DariBellezza credono ancora all'amore...).
Col tempo Bellezza (che non fu ucciso dal "bellissimo assassino" tanto a lungo e tanto invano cercato, ma dall'Aids, e nel suo letto), riuscì a superare alcune delle sue nevrosi, o almeno a venirci a patti, e a vivere in modo più sereno; ma in tal modo la disperazione che era stata la ragion d'essere della sua poesia venne meno nelle sue ultime (e penultime...) opere.
Tuttavia, prima che ciò accadesse, cioè nella prima fase della sua scrittura, tanto stereotipato e inutile fu il ritratto in prosa dell'omosessuale quale sodomita infelice (ad esempio in questo romanzo), tanto fu inedito anzi inaudito l'Io che parla e grida e piange e ama e adora nelle sue poesie.
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Bellezza fu un Genet di provincia, quale poteva produrre un'Italia ancora pienamente democristiana, arrivato fuori tempo massimo, quando ormai la rivoluzione gay stava esplodendo in tutto il mondo e la posa "esistenziale" o "esistenzialista" "contro il moralismo borghese" risultava ormai un gioco fine a se stesso.
Questa circostanza ha reso, a mio parere, caduca la sua produzione in prosa, scritta per scandalizzare una mentalità che oggi trova più ridicole che scioccanti le sue studiate e stereotipate pose da "maledetto".
Ci resta in compenso la poesia, che a mio parere potrà darci emozioni, sia pure contrastanti, ancora per molti anni a venire.
Nota: un saggio sulle opere a tema omosessuale di Dario Bellezza (1944-1996) appare ne L'eroe negato di Francesco Gnerre, alle pp. 369-381.