recensione diGiovanni Dall'Orto
Io, angelo nero
La vita è fatta d'occasioni mancate, si sa... ma per qualcuno lo è più che per altri. In questo caso, ad esempio, l'occasione mancata è bella grossa, trattandosi dell'autobiografia dell'assassino di Pierpaolo Pasolini, che finalmente avrebbe avuto modo e mezzo per dire la sua. Troppe volte abbiamo sospettato che il suo torto maggiore fosse stato uccidere un personaggio troppo famoso, pagando per un biasimo derivato non dall'atto in sé ma dalla fama della vittima. (Per una raccolta di articoli e verbali dell'epoca (1975) sul delitto Pasolini, fare clic qui).
Ebbene, chi sperava che questo libro servisse a fornire un punto di vista diverso sulla vicenda, avrà una delusione. Perché, per dirla tutta in una frase, Giuseppe Pelosi detto Pino nun ha ffatto gnente.... o quasi. Lui era un ragazzo vivace, certo, un po' con l'argento vivo addosso, ecco, ma era tanto bbono, signo'... Ovviamente lui non faceva assolutissimamente marchette, ed è stato solo indotto da Pasolini a provare a farlo, ma giusto per curiosità...
Pasolini lui non lo voleva uccidere... anzi manco s'è accorto di averlo fatto.
Lui si è solo difeso da una selvaggia aggressione d'un sadico, e basta.
Eccetera: già fatto, già visto, già sentito: nulla di nuovo.
Pelosi si dimostra un bambino (anche se nel 1995 andava quasi per i quarant'anni) che crede di poter ingannare il lettore con trucchetti da bambino. Perché lui ha sì riempito di botte la sua ragazza, però non voleva (e ci risiamo?)... e poi era colpa della ragazza... e dopo le ha perfino chiesto scusa...
È stato coinvolto in una rapina, ma era 'n'infamità, lo hanno accusato ingiustamente, era 'na persecuzzione! E così via.
Ora, ciascuno di noi ha diritto di tacere per non autoaccusarsi. Se uno ha sulla coscienza qualcosa e non ne vuol parlare, non lo si può certo torturare perché la spiattelli.
Ma se la reticenza è la linea di difesa scelta da Pelosi, allora perché pubblicargli questo libro, solo per rivelare che non aveva assolutamente nulla da rivelare?
L'unica motivazione che viene in mente è il desiderio di monetizzare sull'unico claim to fame della sua vita: avere ucciso Pasolini (e sai che claim to fame...). Non a caso la prefazione rivela che quest'autobiografia era stata commissionata "da un grosso editore" ma che "poi il progetto non era andato in porto, forse perché il libro aveva deluso le aspettative". E be': quanto a deludere, non è che ora, invece...
Oltre a ciò Gaetano De Leo, che firma la prefazione, ammette di avere "riscritto" questo documento, a cui aveva già messo mano pure una non meglio specificata "giornalista" (forse Dacia Maraini, che firma la postazione?). Con tutto questo sfruculiare e riscrivere, il testo ha perso anche il valore di documento umano. Il linguaggio di Pelosi risulta un ircocervo, un ibrido di espressioni in italiano ultrapopolare e di forbitezze aulico-squisite: ("per ingannare il tempo ho intensificato le mie attività, oltre che a (sic) lavorare gioco molto a tennis e mi sono scritto (sic) al torneo di calcio" (p. 81). Ed anche il suo modo di argomentare ondeggia fra ragionamenti piatti e infantili, e sillogismi da casuista. A questo livello, non sarebbe stato meglio intervistarlo, ed amen?
Ah no, un'intervista non è monetizzabile quanto uno scritto "di suo proprio pugno"...
E così, invece d'una riflessione d'un uomo maturo che si guarda indietro e riconsidera il senso di atti di cui è stato protagonista, invece d'un punto di vista diverso rispetto a quello (fin troppo noto) dei moltissimi amici letterati di Pasolini, abbiamo un bambino in un corpo adulto che sa solo ripetere a pappagallo ciò che aveva detto a 17 anni. Mah!
Completa l'opera una breve ma ottima riflessione di Dacia Maraini, "Pino Pelosi scrittore" (che si può leggere anche su Internet). Dopo l'uscita di Petrolio, il masochismo di Pasolini non è più un segreto per nessuno, e la Maraini ipotizza quindi che quella notte Pasolini possa effettivamente aver provocato Pelosi, sfottendolo, per farsi picchiare. Ma per sua sfortuna Pasolini s'è imbattuto in una persona priva del senso della misura e incapace di controllarsi, come Pelosi dimostra di essere nel suo racconto autobiografico.
Chi studia il delitto Pasolini non può, ovviamente, esimersi da leggere questo documento.
Ma non può nemmeno esimersi dal rimpiangere ciò avrebbe potuto essere, ma non è stato.