recensione diGiovanni Dall'Orto
Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo
Opera del 1949, e come tale, vista l'epoca, con un problema: l'impossibilità di parlare apertamente d'una cosa che Papini sapeva e di cui era convinto: che Michelangelo era omosessuale.
Ciononostante Papini è uomo che su questo punto parla con una franchezza inusuale ai suoi tempi, e alle ciarle e fumisterie crociane, trionfanti all'epoca, preferisce la solida documentazione d'archivio e l'esposizione imparziale dei fatti scoperti (per quanto "indesiderabili" essi siano), tipica della scuola storica ottocentesca. Al punto che quest'opera così vecchia regge il confronto con le biografie recenti, ed anzi spesso lo vince, dimostrandosi (fra le righe, sempre fra le righe) notevolmente smaliziata.
Papini ci presenta un Michelangelo eternamente alla ricerca d'un impossibile amore puro e ideale, mentre riversa la sua aspettativa volta per volta su garzoni, apprendisti, perfino ragazzacci... restandone, chissà perché, sempre deluso.
Sotto questo velo "rispettabile" Papini ci mostra in realtà i tentativi di costruire una relazione amorosa da parte di un omosessuale che, dati i tempi in cui visse, era alla ricerca d'una cosa impossibile. E Papini lo sa, e lo lascia capire. Ovviamente non lo dice mai apertis verbis, ma il modo in cui riesce a dire "tutto" con l'aria svagata di chi non sta dicendo nulla ha del magistrale. L'opera in effetti si legge con il piacere che dà un romanzo ed è, insomma, un riuscito sposalizio fra ricerca accademica e scrittura narrativa.
Si vedano le pp.:
119: due allusioni all'omosessualità di papa Giulio II;
192-194: il "mistero" dell'amicizia caldissima con Giovanni da Pistoia, dai sonetti del quale (inediti) "traluce un'amicizia così ardente da far quasi pensare a qualcosa di più dell'amicizia". E chi vuol capire...
214-217: l'affetto di Michelangelo per lo scapestrato e poco dotato discepolo Pietro Urbano. Che, abbandonato il maestro per darsi alle puttane e ai divertimenti, perdette di botto tutto il talento che, secondo il Buonarroti, aveva. (Ma l'avrà mai avuto? O sarà stato solo un garzone bello e compiacente?);
234-237: Antonio Mini (1506-1533), preso garzone sedicenne nel 1522, morto nel 1533, gli fu accanto per moltissimi anni. Il Buonarroti lo beneficò moltissimo, come un... ehm, "figlio";
238-40: Luigi Pulci jr, ragazzo amato sia da Cellini che da Michelangelo, è descritto come il pocodibuono che era, ma qui Papini censura (immagino, per non tirarsi addosso l'ira degli studiosi) il fatto che Cellini lo definì espressamente un prostituto. Inoltre nel nominare l'aggressione del Cellini a Luigi, Papini tace il fatto che essa era motivata da gelosia sì, ma per Luigi, non per la prostituta di cui Luigi s'era incapricciato. Questo capitolo mostra insomma quali fossero i limiti invalicabili all'epoca anche per un Papini deciso a "dire tutto".
241-243: discute l'accusa mossa dall'Aretino secondo cui un Gherardo Perini sarebbe stato amante di Michelangelo. Con buoni argomenti, Papini dimostra che la data di nascita dell'unico Gherardo Perini di cui troviamo traccia (1480-1564) ne fa una persona matura quando conobbe Michelangelo, e anziana (65 anni) all'epoca delle accuse aretinesche: "Quarant'anni non sono l'età ideale per un efebo o cinedo".
Qui però Papini trascura un dato: in una lettera a Michelangelo del 1522 il Perini si rivolge al Buonarroti con deferenza "filiale" (per cinque anni di differenza?), e in un'altra lettera dello stesso anno Michelangelo si rivolge a lui come "prudente giovane". È quindi ovvio che la persona di cui sta parlando Papini e quella calunniata (?) dall'Aretino (e con cui Michelangelo corrisponde) sono diverse: probabilmente l'uno sarà parente (immagino, nipote) dell'altro.
261-263: racconta l'inusuale favore di Michelangelo per un giovane scultore, Giovannangelo detto "Il Montorsoli" (1507-1563), che favorì in ogni modo. Ma dopo dieci anni lo congedò bruscamente (e Papini, svagatissimo: "a quanto sembra, non lo amava più come prima", p. 262) e non lo rivide più (e Papini, con l'aria di chi sta parlando di tutt'altro: "forse non trovò neppure nel Montorsoli quel fedele affetto che il suo cuore desiderò e cercò per tutta la vita", p. 263);
516: lo "scherzo" di Sebastiano del Piombo che nel 1533 suggerì a Michelangelo di dipingere sul soffitto della Sagrestia nuova di san Lorenzo un... Ganimede rapito dall'aquila.
333-335: Febo del Poggio e l'amore "vero, sia pure tutto contemplativo e platonico" (p. 334) di Michelangelo per lui. "Il giovane, invece, non voleva amore ma denari". (p. 335). (Della serie: "non mi fate dire di più, non posso dir nulla");
354-360: il titolo del capitolo dice tutto: "L'amore per Tommaso del Cavaliere" (1512/14-1587). Papini non ha nessuna paura ad esaminare l'"interpretazione crudamente pederastica che risale all'Aretino" (p. 354) di questo amore, anche se conclude optando per l'amore platonico e non "consumato", caratterizzato dalla "bellezza come scala al divino" (p. 358). Conclusione che in questo caso corrisponde con ogni probabilità al dato storico: Tommaso era un nobile, da ossequiare da lontano, non un ragazzaccio spiantato e avido di "denari" alla Febo di Poggio, che si poteva comprare, solo volendolo.
Sono poi semplicemente grandiosi, nella loro delirante capziosità, i ghiribizzi della parte finale di p. 359, che cercano di dire-senza-dirlo che Michelangelo era omosessuale, però non era un omosessuale cattivo, un "invertito": "amando un maschio l'amante è liberato da quegli inquieti e violenti desideri fisici che turbano e avviliscono coloro che amano soltanto le donne". Magistrale!
432-435: qui l'apologeta prende il sopravvento sullo storico: nel descrivere l'amore di Michelangelo per Cecchino de' Bracci (1529-1544), morto quasi sedicenne, Papini ne smorza la portata e la natura. E il suo imbarazzo per un affare che sfiora la pedofilia è comprensibile. Ma fu Michelangelo a scrivere in un suo sonetto per Cecchino che costui gli fu "grazia nel letto";
436-440: i rapporti fra Michelangelo e il letterato Benedetto Varchi (1503-1565), descritto senza remore come il "sodomita" che fu, e che Papini liquida come un fastidioso imbrattacarte col pallino dell'arte che molestava Michelangelo con le sue richieste di scritti sull'arte;
475-478: ritratto di un contemporaneo di Michelangelo, il letterato Gianfrancesco Lottini (1512-1572) le cui notorie tendenze omosessuali (subì almeno una condanna per sodomia) sono apertamente nominate da Papini;
511-515: il capitolo "La moglie ideale" è un'esercitazione retorica con esibizione di giochi di prestigio verbali per giustificare l'assenza di donne nella vita di Michelangelo. Per i lettori etero dal cuore troppo fragile...
520-524: su Francesco Amadori, detto "l'Urbino", garzone e servitore di Michelangelo per 26 anni.
Se storia amorosa vi fu tra i due, si trattò di cosa degli inizi, perché l'Amadori divenne col tempo quel "figlio adottivo" ancora così comune fra un certo tipo di persone omosessuali (i ricchi anziani che preferiscono gli eterosessuali) e che accettano volentieri che il loro (ex) amato porti in casa moglie e figli. Rendendoli, in un certo senso, nonni;
578: di san Filippo Neri, contemporaneo di Michelangelo, Papini butta lì, svagatamente, che come il Buonarroti egli era "ammiratore della bellezza de' giovani, della poesia, della musica". Tu quoque, Philippe?