recensione diAndrea Meroni
Gay Salomè
In un film piacevolissimo di Robert Altman, intitolato La fortuna di Cookie, una contratta dama del Mississippi interpretata da Glenn Close riversa il suo fuoco interiore – negato nella vita di tutti i giorni da una facciata da intrattabile zitella – dirigendo una messinscena dilettantesca della Salomè di Oscar Wilde. Cosa c'è di meglio infatti di un dramma burrascoso come la Salomè per sublimare le proprie passioni più pulsanti? E quale mito può prestarsi meglio di quello di Salomè a una rilettura sfrenatamente kitsch?
Sempre su queste stesse basi, è perfettamente ragionevole che una combriccola di omosessuali – che, come il cinema italiano non fa altro che ribadire, hanno molte pulsioni da sublimare – decida di appropriarsi proprio di questo mito e di rileggerlo a proprio uso e consumo sul palco di un locale popolato da spettrali pederasti. Questo è il presupposto di Gay Salomè, un film indescrivibile e ambiguo girato da Michele Massimo Tarantini, il quale ha firmato pellicole dalla comicità leggera come un ippopotamo in cui travestitismo e/o omosessualità caricaturale erano una presenza obbligatoria (penso a La poliziotta della squadra del buoncostume o al barbarico La moglie in bianco... l'amante al pepe). L'aspetto che rende incredibile Gay Salomè è il fatto che oltre al “ragionevole presupposto” di cui sopra non ci sia nient'altro (fatta eccezione per qualche canzone decente): una squinternata compagnia di omosessuali mette in scena una versione traviata della Salomè presso il locale “L'Alibi”. Punto.
Non c'è un'azione che faccia da controcanto, se si eccettuano alcuni sprazzi muti e piuttosto squallidi di gay nightlife ambientati nello stesso locale dove si svolge la rappresentazione. È senza dubbio un'idea originale, però il tono da recita parrocchiale (ovviamente in una parrocchia sconsacrata) non permette al pubblico di farsi assorbire dalla non-vicenda; dopo un quarto d'ora lo spettatore comincia angosciosamente a chiedersi se il film sarà tutto così, o se perlomeno ci sarà una tombolata con dildo in palio, per fornire lo spaccato di una serata in un locale gay così come se lo immagina il regista Tarantini. A un certo punto in effetti viene presentata – a mo' di interferenza – una specie di sfilata di gaia eleganza, ma l'illusione che qualche evento possa spezzare l'implacabile rappresentazione della Salomè viene delusa nel più sadico dei modi.
La drammaturgia proposta non è di sicuro farina del sacco di Oscar Wilde, ma tenta comunque di stupire con la sua arguzia. Ed è così, che tra le “perle” della sceneggiatura e quelle della regia, c'è di che sgranare gli occhi in più di un punto:
«La pitonessa Giovanna [un Giovanni Battista alternativo] ha detto una cosa vera. Vera, ma banale: tutti gli uomini hanno in se stessi il loro più grande nemico». Dopo questa battuta, pronunciata ieraticamente da Erode Antipa (il leggendario Vinicio Diamanti), un drappello di travestiti si congela per comporre un tableau vivant. Stacco. Dettaglio del pene di una statua erculea. Cosa ci sta suggerendo Tarantini con questo guizzo inventivo? Che la passione per i membri virili è il difetto fatale di certi uomini? Urge la realizzazione di un audio-commento di Tarantini per chiarire enigmi di tale imperscrutabilità.
Più avanti ha luogo un dialogo filosofico sul tema della lussuria di Erode, il quale fa la seguente considerazione: «Siamo rimasti in pochi a poter parlare da re, cioè sinceramente. I nostri vizi sono altrettanto palesi delle nostre virtù. Chi potrebbe lodarci? Chi biasimarci? Certo gente in ogni caso inferiore a noi. E allora che importanza possiamo dare al giudizio del nostro prossimo? Il nostro prossimo è un nostro suddito, quindi di chi mai potremmo temere il giudizio?». «Di Dio» risponde il petulante Giovanni Battista, al che Erodiade replica: «Beh, allora possiamo continuare a fare quello che ci pare». Cos'è questa se non una rivendicazione dei gay dichiarati del diritto a vivere nel “peccato” in virtù del loro conclamato (?) senso di superiorità? Basta sostituire la parola “re” con “regine”.
La testa che Salomè (Pasquale Zacco) richiede a Erode non è quella di Giovanni Battista (un energumeno col turbante), bensì quella dello schiavo siriaco di cui lo stesso Erode è invaghito. Pur di soddisfare il suo desiderio carnale nei confronti di Salomè, il re acconsente a far decapitare lo schiavo; del resto quando mai si è visto – nel cinema popolare italiano – un personaggio che, dovendo scegliere tra un uomo e una donna, propenda per l'uomo? Non per niente quando Erode – evidentemente un gay che odia se stesso – scopre che Salomè è essa stessa un uomo, la pugnala a morte. Il messaggio è cristallino.
Deliri così, non se ne sentono tutti i giorni! In tutto questo, Tarantini dà sfogo alla sua vena autoriale torturando il pubblico con un tripudio di grandangoli “illegali” e condannandolo alla cecità con un'oscurità perenne bucata solo dalle immancabili paillettes dei travestiti. Più i riferimenti visivi sono elevati, più lo spettatore è indotto a inframezzare gli sbadigli con dolorosi sospiri: la parte iniziale – l'inevitabile scena di trucco nei camerini, spezzata in mille dettagli, tra imbottiture di reggiseni e glutei pelosi ripartiti da tanga vellutati – è una parente balorda dell'incipit di All That Jazz, mentre un boia canterino con una scure/chitarra elettrica fa pensare a Il fantasma del palcoscenico, o meglio, a come Brian De Palma l'avrebbe girato al tempo delle scuole medie.
Dopo aver promesso ingannevolmente e ripetutamente di finire, Gay Salomè si conclude con la declamazione di una poesia sociopatica in ottonari (ancora una volta non di Oscar Wilde), che riporto per senso del dovere:
Travestito, ermafrodito,
mascolino, femminino,
terzo sesso alternativo:
fai paura ai benpensanti,
sfidi il trono dei regnanti,
sfidi il letto degli amanti,
sfidi il bianco degli altari;
sfidi pure il poliziotto,
la morale dei meschini
sfidi ad ogni crocevia
un insulto, una risata,
se non scappi lesto via
rischi pure una sassata.
La tua ricca fantasia
viene al buio pugnalata.
Tu modesto non sei mai,
ti rimiri nello specchio;
agli ipocriti funesto,
tu ti piaci più che mai.
Invidiato dai sacristi,
sei nei sogni dei ragazzi.
Travestito, ermafrodito,
tutto fuoco, tutto sesso,
ricco solo di te stesso. (x5)
Fica o fico fa lo stesso.
Non lo sanno i benpensanti
e gli ipocriti neppure,
figuriamoci i borghesi:
non conoscono il coraggio
della propria identità.
Tutto fuoco, tutto sesso,
fica o fico fa lo stesso.
Quel che serve, quel che vale
è il coraggio di cambiare. (x5)
Fuori l'autore!