recensione diGiulio Verdi
La noche, la nuestra noche de amor no es finida...
L’umorismo fulliniano, notoriamente camp, epigrafico e sottile, ben si adatta a questo romanzo tanto breve quanto pieno di grazia. Senza mai perdere il dolceamaro filo neanche per un attimo, la penna dell’autore si destreggia tra le rocambolesche vicende personali dell’orfanella Arída e le ancor più esplosive evoluzioni politiche di una fittizia dittatura fascista sudamericana, le cui redini sono in mano al gayssimo Generalissimo Eloy.
L’ambientazione fiabesca e fuori dal tempo (l’anonimo stato “non possedeva riserve d'oro, né di diamanti e neppure un filo d'uranio, ma produceva soltanto caschi di bananitos e struggenti canzoni d’amore”) suggerisce un disimpegno che comunque non impedisce all’intenzione edificante di Fullin di emergere tra le righe. Il personaggio di zio Julio/tía Atlantide, la sgangherata signora transessuale che educa la nipote Arída all’amore e alla rivoluzione, è portatore di una morale gaia-che-più-gaia-non-si-può: si oppone alle istituzioni ingiuste e patriarcali (abbandona il posto fisso da ragioniere, diventa donna per essere una leggenda come il continente scomparso di cui porta il nome, si guadagna da vivere rubando l’elemosina in chiesa), non conosce remore nell’innamorarsi nemmeno davanti alla peggiore delle avversità (sia essa una malattia terminale o la furia divina che si manifesta facendo sciogliere la cera di tutte le statue di sante della sua collezione), ma soprattutto sa che la vita va avanti, anche quando tutto cambia. Meglio ancora: sa che tutto non può fare altro che cambiare, ed è proprio questo che fa andare avanti la vita.
Con ammirevole continenza, lo stile di Fullin coniuga una sintassi asciutta con immagini iperboliche e una comicità garbata e fine (memorabili le pagine biografiche sul sogno peruviano della madre di Arída, come anche quella in cui si spiega perché l’Omelette Tucigualpa riesce solo alle cuoche della città di Meríd). Il capitolo centrale, quello in cui Arída viene rapita dai guerriglieri della revolucíon, è una specie di “Cuore di tenebra” rivisitato in chiave camp. Menzione speciale per lo pseudo-Spagnolo che si parla (e soprattutto si canta) nel fittizio stato sudamericano, un misto di locuzioni melodrammatiche, calembour e dialetto veneto.