recensione diMarco Albertini
Trent'anni di Oscar
Lady Oscar compie gli anni: curiosità e retroscena di una delle serie animate giapponesi più famose e amate da gay, lesbiche e persone transgender.
Trent’anni di Oscar
‘Beru Bara!’ Non è un anatema giapponese contro il malocchio ma il soprannome con cui i fan locali chiamano “Berusayu no bara”, La rosa di Versailles, titolo originale della serie di Lady Oscar. Tratto da una storia a fumetti lunga circa 1700 pagine, il cartone animato per la televisione seguì ad una catastrofica versione cinematografica con attori europei sponsorizzata dai cosmetici Shiseido e fu creato nel 1979, sviluppandosi per 40 episodi con uno stile mai visto prima. Con Lady Oscar infatti per la prima volta il fattore estetico fu considerato fondamentale è permeò tutto, dai visi dei protagonisti alle scenografie, con risultati straordinariamente camp, e non solo per gli austeri standard del Sol Levante. Lady Oscar ha ottenuto anche al di fuori dei confini del Giappone un successo inaudito pur essendo intriso di piani di lettura e di simbolismi che molto spesso sfuggono, per mancanza di comuni basi culturali, a noi occidentali. Un esempio importantissimo è che tradizionalmente i giapponesi, nel loro tipico immedesimarsi con la natura, associano l’idea della morte all’immagine di petali che sfioriscono o di foglie che ingialliscono in autunno. Una rappresentazione indubbiamente più simpatica rispetto a uno scheletro che tiene in mano una falce… I protagonisti femminili e maschili, paragonati alle rose (l’immagine grafica del fiore è spesso accostata a quella dei personaggi principali del racconto), sbocciano lentamente ma l’apice delle emozioni è raggiunto solo con le loro morti che avvengono subito prima che diventino definitivamente adulti. Ma oltre a questo meccanismo a tempo che intrappola il lettore o lo spettatore, cosa sarà che fece trepidare nel profondo i cuori di tutt* noi? Uso apposta l’asterisco perché Lady Oscar è forse l’unica icona equamente condivisibile tra uomini gay, donne lesbiche e persone transgender.
Si potrà quindi definire come un meraviglioso quanto rarissimo e casuale modello di purismo queer? Procediamo con ordine. L’intera trama si basa su un indiretto quanto potente messaggio di libertà dagli schemi prefissati dalla società, che ha avuto certamente un inconscio impatto sugli spettatori. La geniale autrice Riyoko Ikeda, grazie ad un trucco tutto nipponico per cui la logica va spesso a scapito della necessità emotiva degli avvenimenti, impone alla nostra eroina di vestirsi e comportarsi praticamente solo da maschio sin dalla più tenera età. Questa condizione di “cross-dresser” è riconosciuta e accettata come se niente fosse da tutti, sia a corte che tra il popolo che farà infine infiammare la rivoluzione francese. In questo modo Oscar vive esperienze ed avventure assolutamente impensabili per una donna del 18° secolo, ma non solo dell’epoca o europea.
Altro motivo di fascino è che grazie ad una trama avvincente ed appassionante come una ben congegnata telenovela, ogni intricatissimo rapporto sentimentale che si instaura tra i vari protagonisti è sempre basato su passioni estreme ma mai espresse se non quando è inevitabile. Veri e propri tormenti d’amore, quasi mai riconosciuti o soprattutto accettati. Come non pensare ai primi turbamenti affettivi e alle prese di coscienza del proprio orientamento sessuale in piena adolescenza, senza una preziosamente silenziosa immedesimazione? Se Oscar è bellissima è però anche un personaggio ambiguo e non soltanto per le sembianze fisiche un pizzico androgine. Da un punto di vista occidentale quanto è cavalleresca, coraggiosa e persino rigida all’esterno, tanto è repressa e indecisa nel suo intimo. E questo la rende molto umana. L’edizione italiana di Lady Oscar (ma perché mai questo titolo nobiliare se è francese?!) subì molte censure nei testi, grazie a “abili” traduzioni e oculate manipolazioni dei dialoghi originali.
Ad esempio si cancellò qualsiasi riferimento al possibile lesbismo della regina Maria Antonietta, accusata ad un certo punto di intrattenere rapporti saffici con molte dame di corte, Oscar compresa. Fu addirittura eliminata di netto la prima scena di nudo integrale che la storia dell’animazione televisiva per ragazzi ricordi! Detto questo, tanto per rompere le uova nel paniere dei vostri ricordi, da un punto di vista giapponese tutto ciò non ha il minimo senso. L’autrice, per sua stessa ammissione, voleva solo scrivere una storia “esotica” a base di trine e merletti, e l’esotismo è sempre relativo al punto della terra dove vi trovate (Puccini con Madama Butterfly lo insegna bene). Oscar in verità non è rigida o repressa ma solo intrisa di sani principi neo-confuciani da comunicare pedagogicamente all’irregimentato pubblico nipponico, per cui il valore ed i bisogni del singolo sono sempre subordinati al bene del gruppo e l’obbedienza al superiore (il padre, la regina, la Francia…) è di importanza capitale e imprescindibile, a costo di ogni tipo di sacrificio. Difatti quando Oscar deciderà, per amore, di sgarrare partecipando alla presa della Bastiglia l’aspetta la morte. Una morte comunque piena di nobiltà e onore, perché le si riconosce il coraggio di portare avanti la sua scelta contro tutto e tutti e con feroce autodisciplina “samuraica”.
Un meccanismo psicologico, quello del sentimento personale che alla fine vince sul dovere sociale, con conseguenze esclusivamente catastrofiche ma molto romantiche, che da sempre inonda la letteratura, il teatro e il cinema popolare giapponese. A questo punto bisogna denunciare la “Cristina D’Avenizzazione” che le sigle italiane di Lady Oscar, e non solo, hanno subito. Una vera e propria lobotomia ai cervelli del pubblico da ritenere e mantenere il più cretino e “asessuato” possibile nei secoli a venire: “Grande festa alla corte di Francia, c’è nel regno una bimba in più, biondi capelli e rosa di guancia, Oscar ti chiamerai tu; il buon padre voleva un maschietto ma ahimè sei nata tu, nella culla ti ha messo un fioretto, Lady dal fiocco blu”.
Essendo invece all’origine un cartone animato pensato in specifico per un’audience femminile in età adolescenziale, la canzone dei titoli di testa (ascoltabile su YouTube) già delinea l’atmosfera del racconto, colpendo direttamente al cuore e ferendolo a morte lenta ma certa: “Se io fossi un fiore senza nome, che fiorisce in un campo d’erba mentre oscilla solamente al vento andrebbe bene ma… Io sono nata con il fato delle rose, nata per vivere in modo brillante ed intenso (quindi, tra le righe, “brevemente”), Rose, rose, fioriscono nobili. Rose, rose, perdono i petali in bellezza… “ Pura sfortuna o karma infausto a vostra scelta, ad Oscar non è concessa alcuna possibilità di sopravvivere all’ultima puntata. Come non piangere allora a vita come dei vitelli grazie alla televisione, magari attaccandosi disperati a pesanti tende di velluto? Ammettiamolo: è il sogno inconfessato di ogni gay! Quello che Lady Oscar però può ancora insegnare è che imparare a guardarsi dentro per saper essere se stess*, con tutti i relativi tormenti interiori del caso, è sia il punto di partenza per iniziare a vivere veramente che il miglior traguardo a cui possiamo aspirare. In breve un premio Oscar a noi.