“Musil – Così Ernest Kaiser nel Merkur del 7 luglio 1957: - un uomo che fu prigioniero di guerra simbolicamente, ma nel senso più vero della parola, perché dal 1938 al 1942 visse in Isvizzera appartato, solitario, misconosciuto sempre lavorando a un libro… che non finì”.
Questo libro non finito, opera di tutta una vita, è quel Mann ohne Eigenschaften, quell’Uomo senza qualità che, rimasto per un ventennio quasi ignorato, ormai, tradotto in sei o sette lingue, conquista il mondo e viene proclamato il capolavoro della letteratura modernissima.
Esso era stato però molti anni prima da un breve romanzo che esce ora presso la casa editrice Einaudi, tradotto dalla stessa valente Anita Rho che già tradusse L’uomo senza qualità, s’intitola: I turbamenti del giovane Törless e fu pubblicato quando Musil aveva ventisei anni.
Quando Musil lo iniziò, a ventidue anni, aveva ancora fresco in mente il ricordo dei duri anni passati nell’accademia militare di Weisskirchen, la stessa dove Rilke aveva trascorso un infelicissimo periodo della sua vita “lasciando quella scuola in uno stato di completo esaurimento, duramente provato nel corpo e nello spirito”.
Più vigoroso, dotato di una forza ironica e di un umorismo che Rilke non aveva – e che si manifesta continuamente nell’Uomo senza qualità – Robert Musil da quegli anni e da quell’ambiente di vecchio collegio asburgico ha tratto il suo Tõrless, spietato racconto delle esperienze crudeli e quasi allucinanti cui vanno in contro gli adolescenti messi a studiare e a educarsi in collegio, sotto la sorveglianza di maestri ignari di tutti i fermenti, le audacie e le perversioni che ribollono nelle nuove generazioni.
In collegio Törless fa il difficile tirocinio. Non è però l’Accademia militare di Weisskirchen, è un collegio laico ai confini della Boemia, un ex convento fra tranquille campagne, i fondatori avendo scelto quel luogo appartato nell’ingenua fede di isolare, durante i difficili anni della formazione, i giovani educandi dagli influssi corruttori delle grandi città.
Qui Törless conosce crisi di tristezza e di solitudine, si prende di viva simpatia per un giovane principe proveniente da una delle famiglie più aristocratiche e più conservatrici dell’impero austro-ungarico, la rompe con lui in seguito a una discussione sulla religione; brancola per un po’ nel buio e nel vuoto, finché stringe relazione con due dei più loschi figuri del collegio, due giovinastri dai torbidi istinti, dalla prepotenza autoritaria mascherata di ipocrisia, che in uno dei due riveste volentieri forme misticheggianti quali presto si dovranno incontrare nei riti cari al nazismo hitleriano.
Törless ne è volta a volta attratto e ributtato, ma la forza soggiogatrice dei due finisce per seguirlo e travolgerlo in un’avventura di cui è vittima un giovane bellissimo e naturalmente affettuoso che l’autore designa con un nome italiano: Basini.
Ma Basini è un debole, è il famoso vaso di coccio manzoniano fra i vasi di ferro. Una sua imprudenza (in un’ora di assoluta sprovvedutezza a sottratto a un compagno una piccola somma con l’intenzione di restituirla) lo dà in balia dei due crudeli.
Con una potenza di rappresentazione e di dialogo, che Musil appena supererà nelle più forti pagine dell’Uomo senza qualità, è narrato il lavorio inesorabile dei due atroci giovani per umiliare e ridurre Basini a tutte le loro voglie. Con uguale sagacia psicologica è raccontato il processo per cui Törless si accende di amore per il giovane mite e leggiadro; debolezza per la quale Törless si espone al ricatto dei due complici.
In un’intervista concessa a un critico poco dopo la pubblicazione del Törless, Musil ebbe a dire: “i fatti in una novella o in un romanzo possono sempre venir mutati a piacere del lettore. Quel che a me importa e interessa è l’intellettualmente tipico (das geistig Tiypisiche), dirò anzi addirittura il fantomatico degli avvenimenti”. Volendo dunque intendere questo scrittore bisogna accettare la condotta del protagonista senza darle troppa importanza e mutandola, se mai, a piacer nostro. Il lettore comune gradirebbe però che a questo punto Törless, - a cui Basini si è concesso con appassionata tenerezza – avesse il coraggio di sfidare il ricatto, salvando sé e il giovane amico.
Ma non fa così; e solo dopo una scena che arriva all’atrocità, in cui i pericolosi sodali denunziano Basini alla classe e lo sottopongono al collettivo ludibrio, Törless darà nascostamente al ragazzo il consiglio di ricorrere alla direzione denunziando i sui torturatori.
Nell’inchiesta che segue, i due ribaldi (Törless si è dato alla macchia, Basini tace, paralizzato dalle minacce di una vendetta spietata se parlerà) sostengono abilmente la tesi che Basini era un indegno e che essi avevano agito con durezza per non lasciare che un compagno fosse deferito ai superiori prima di aver esaurito tutti i mezzi per tentare di correggerlo.
Quando Törless ritorna ed è interrogato a sua volta, egli sfugge abilmente al castigo abbandonandosi a un ragionamento pseudo-filosofico, accusando una “lacuna di causalità” nel proprio pensiero. Il professore di matematica membro del giurì confermerà che, una volta, Törless avendogli chiesto delle spiegazioni a proposito della teoria dei numeri immaginari, lo aveva meravigliato rivelandogli in pari tempo un acume raro e un dubbio morboso che gli aveva infatti prodotto l’impressione di una “lacuna di causalità” nella mente del giovane. Il quale lascerà il collegio senza rimorsi, con un piccolo quasi svanito ricordo dell’accaduto.
Sul romanzo, al suo apparire, si avventò la cagnara dei critici che, unanimi, gridarono allo scandalo. I giudizi cominciarono a placarsi quando Alfredo Kerr, sul berlinese Tag, scese in campo a difendere l’opera “screditata, umiliata e sputacchiata” del giovanissimo autore; e Marta Musil, la fedele compagna dello scrittore tormentato ed esule, ha raccontato come ancora molti anni dopo Musil ricordasse con gratitudine il ruolo che Kerr aveva rappresentato nella sua vita, “dando la parola d’ordine per un’esatta valutazione della sua opera e la start alla sua carriera letteraria”.
Ventiquattr’anni dovevano passare dalla pubblicazione del Törless e quella del primo volume dell’Uomo senza qualità (1932); ma molto tempo ancora ci volle perché la critica e i lettori apprezzassero finalmente quell’arte del Musil, quella sua sincera appassionata ricerca dell’esatto, del preciso, di cui dice bene il Kaiser che: “stando al centro di questa ricerca egli preferì il pericolo di dire qualcosa di non vero al pericolo di buttar via anche un granello di verità. Musil sapeva non solo quanto sia difficile scoprire la verità; ma come – e sia pure un paradosso – essa talvolta sia contenuta nell’errore”.
Così si spiega la sua analisi infinitesimale dei fatti psichici, dei sentimenti, degli atteggiamenti, degli stati d’animo; si spiegano quelle che i lettori superficiali chiamano lungaggini e sono l’espressione del suo scrupolo e della sua volontà di non alterare.
Intanto una delle accuse più frequenti che si muovono a Musil è quella di non esser “un buon novellatore” e di rifugiarsi per ciò nella satira, dentro la quale il suo intelletto meglio si sentiva in grado di padroneggiare l’arte del raccontare: le ombre insomma di un arte sovrana schiva di ogni lenocinio e di ogni faciloneria; un’arte messa al servizio di un’osservazione quasi profetica, per cui, fin dal 1906, studiando l’ambiente di un collegio militare asburgico, Musil seppe già darci i segni minacciosi del nazismo.
Ché questo in realtà il problema centrale del Törless, e non, come ai lettori mediocri apparve, la crisi della pubertà esplicatesi [sic] in alcune quasi trascurabili perversioni sessuali. Lo ha detto Musil stesso in una lettera ad un amico del 21 dicembre 1906, che ora il Frisé pubblica in appendice al volume dei romanzi brevi e dei drammi:
“Non ebbi nessuna intenzione di rendere evidente e concepibile l’omosessualità. Forse di tutte le anormalità essa mi è la più lontana, quantomeno nella forma attuale. Vi sono incappato per caso, perché si trattava di un collegio. Invece del giovane Basini avrebbe potuto starci benissimo una donna, e, invece dell’omosessualità, sadismo, masochismo, feticismo… ritengo infatti che le situazioni più varie potevano nascere da quei problemi intellettuali, da quelle «Stimmungen»… come tu sai io mi occupo anche scientificamente di psicologia e devo dire che i bellissimi saggi di alcuni psichiatri francesi mi han dato il mezzo di comprendere ogni anormalità e quindi di saperle raccontare”.
Dirà ancora negli Appunti teorici per la vita di un poeta scritti nel 1936:
“A lungo andare mi han perseguitato definendomi uno psicologo. Mi sono sempre difeso contro questa definizione (potevo farlo in quanto ho veramente studiato psicologia e fui anzi a un pelo di venir abilitato all’insegnamento di essa in un’università). Infatti ciò che s’intende per dote psicologica in un poeta è tanto differente dalla “psicologia” quanto la poesia differisce dalla scienza… naturalmente la poesia utilizza il sapere e l’esperienza, tanto quella della natura esteriore quanto quella della natura interna ed intima… ma se nei miei libri c’è molta psicologia si deve intendere che io non miro al «comprensibile», ma al «sensibile»”.
Quando Musil morì, dopo quella triste sepoltura in cui fu accompagnato da solo otto persone al cimitero, Thomas Mann non esitò a vaticinare: “non v’è altro scrittore tedesco vivente di cui la fama postuma sia per me altrettanto sicura”.
Ma alla propria onestà artistica Musil aveva sacrificato il presente. Nei suoi Appunti per una biografia si trova, tra l’altro, questa nota: “Invidia di uno scrittore? Essere abbandonato dagli uomini, le armi spezzate, udire il giubilo e le musiche che accompagnano l’arrivo dei beniamini della fortuna, non è questa una situazione assai triste?”.
Consola ciò che scrisse di lui la sua vedova: “Che la gioia del lavoro ben fatto non lo abbandonò mai”. Il mattino del giorno della sua morte nella villetta con giardino che abitava in un sobborgo di Ginevra, egli aveva ancora scritto alcune pagine del capitolo: “Respiri di un giorno di estate”.