Il radicalismo omosessuale moderno, per esempio quello dei capelli lunghi per molti gay che non si conformavano alle rigide norme di genere in fatto di mode e costumi tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta del secolo scorso, ha lentamente ceduto il posto ad un appiattimento della diversità alle altre identità sessuali. Con pratiche politiche innervate attorno ad un movimento di idee rilevante per tutte le comunità GLBT (Gay, Lesbian, Bisexual e Transgender) del mondo, infatti, al processo di riconoscimento della diversità la recente politica degli omosessuali ha sostituito quello di rispetto della "normalità" da parte delle società in cui vivono. Così facendo, il movimento omosessuale ha rinunciato ad una militanza attiva (P. Bourdieu, 1998), sino a fare della normalizzazione il criterio della sua visibilità.
Sul finire di gennaio è uscito nelle sale cinematografiche italiane il film Brokeback Mountain (A. Lee), che narra l'amore di due guardiani di pascoli tra le sterminate distese del Wyoming negli U.S.A.. Al di là delle indubbie qualità sceniche e narrative, però, il film consegna al pubblico un messaggio preciso: il gay effeminato, che palesa il proprio orientamento sessuale anche in luoghi dove la discriminazione è forte, non è più sovversivo come lo era un tempo. In sostanza, pure in questo film, si evidenzia come la "normalizzazione", cioè il processo di reciproco riconoscimento tra eterosessuali e omosessuali, articolato attorno a temi che toccano non solo i diritti in materia di unioni di fatto (eterosessuali e GLBT), stia comprimendo le lotte degli omosessuali in un progetto politico di trasformazione economica e sociale non più radicale. M. Foucault con le sue dichiarazioni circa l'identità omosessuale rilasciate nel 1981 in un'intervista [1], sembra essere stato l'ispiratore di questo processo; nel quale, in sostanza, non è più decisiva la definizione dell'identità omosessuale, quanto il rapporto che si è venuto a creare e si trasforma costantemente tra questa e le altre identità sessuali.
Non mancano critiche al processo di normalizzazione e da più parti risuonano controversie circa la natura e la definizione stessa di questo annichilimento politico, soprattutto per l'indolenza con cui gli omosessuali di oggi confutano la supremazia maschile eterosessuale, in particolare nelle professioni e nel lavoro. Del resto il rapporto Sesso, amore e omofobia di Amnesty International del 2004 fa il punto su una situazione mondiale dove le violenze nei confronti di gay, lesbiche e transessuali sono in aumento; ad esempio: l'omosessualità è un crimine punibile con la morte in alcuni paesi musulmani (Arabia Saudita, Iran, Afghanistan, Yemen e Sudan). In paesi come Uganda, Zimbabwe, Giamaica e El Salvador la persecuzione ha raggiunto l'apice, laddove in Kansas, Ohio o Colorado sono attivi movimenti "anti-gay" che considerano un dovere cristiano discriminare e persino uccidere gli omosessuali. Tutto ciò mentre, più vicino a noi, nell'estate del 2004 il collettivo degli omosessuali e transessuali madrileni (Cogam) ha accusato i vescovi di "apologia di omofobia" per essersi espressi a difesa del matrimonio cristiano e ha chiesto alla Magistratura di "procedere d'ufficio contro tutti coloro che compiono un tale crimine che non deve restare impunito"(rivista Abc, 22 luglio 2004).
A ben vedere, insomma, i pregiudizi che accomunano gay e lesbiche ancora oggi, cioè di coloro che sono spinti a ignorare, reprimere o rimuovere le loro diversità rispetto agli eterosessuali, ci fanno riflettere sul fatto che l'identità omosessuale si costruisce ancora attorno a un forte impulso di emarginazione sociale (E. Abbatecola, 2005). Tanto che non manca chi, all'interno del mondo scientifico, preme perché venga al più presto inserita l'omofobia all'interno dei manuali diagnostici, come per esempio la dottoressa K. A. O'Hanlan, ginecologa e presidente emerita della Gay and Lesbian Medical Association, che sostiene a tal proposito: homophobia as psychiatric pathology.
Orbene, l'intento di questa trattazione non è una ricostruzione teorica e scientifica del termine omofobia, della quale non mancano numerosi e recenti interventi (E. Abbatecola, 2005), ma sollevare qualche dubbio circa la validità euristica del termine stesso sia per le scienze sociali che per coloro che lottano per l'affermazione della propria diversità.
Premesso che col termine omofobia si indicano principalmente due fenomeni sociali, e cioè la paura o fobia dell'omosessualità, ed in particolare la paura di venire considerati omosessuali - ed i conseguenti comportamenti volti ad evitare gli omosessuali e le situazioni considerate associate ad essi - e il pregiudizio verso non solo gli omosessuali ma, anche, verso i bisessuali ed i transessuali, non credo affatto che il termine omofobia sia adeguato a designare un atteggiamento, trattandosi, appunto, di fobia; del resto il Dsm IV (American Psychiatric Association, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali IV) non riporta assolutamente, tra le fobie, l'omofobia.
Omofobia deriva dal greco homos [omoios] (stesso, medesimo) e fobos (paura) e letteralmente significa "paura dello stesso", tuttavia il prefisso "omo" è qui usato in riferimento ad omosessuale. Gli scienziati sociali, però, sanno da tempo che si possono classificare come atteggiamenti quelle tendenze a valutare ogni espressione del nostro ambiente sociale e a reagirvi, conseguentemente, in modo positivo o negativo (l'antipatia verso chi ha una carica istituzionale o la preferenza per una marca di caffè piuttosto che un'altra per esempio). Le fobie sono, invece, paure intense e persistenti per particolari oggetti o situazioni, che possono comportare una notevole riduzione delle proprie attività, tant'è che il soggetto, spesso, le prova benché non ne capisca la ragione. Secondo G. Colombo (1996), infatti, "il fobico posto a contatto con lo stimolo specifico temuto presenta in genere vere e proprie crisi d'ansia più o meno intense e paralizzanti"(p.211). Poi, solo per citarne alcuni, tra i sintomi delle fobie riconosciute dal Dsm IV ci sono: palpitazioni, tachicardia, sudorazione, sensazione di soffocamento, fastidio al petto, nausea, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento.
In un'indagine condotta da un gruppo di psicologi dell'Università dell'Arkansas [2],è stata sottoposta a 138 persone una serie di test e tre questionari per la misurazione del livello di ansia e paura. Tra i test somministrati l'Index of Attitudes towards Homosexuals (Iah), la Sexual Attitudes Scale, il Disgust Emotion Scale e il Padua Inventory: il primo è considerato lo strumento che misura l'omofobia; il secondo indaga il pensiero delle persone nei confronti della sessualità umana; il terzo strumento aveva il compito di misurare le risposte delle persone in termini di disgusto, mentre il Padua Inventory misura la paura di contaminazioni. Le analisi statistiche compiute sui risultati hanno mostrato una correlazione negativa tra gli atteggiamenti nei confronti degli omosessuali e la misura di paura e ansia; invece i risultati del Iah erano correlati positivamente con i risultati della Sexual Attitudes Scale, del Disgust Emotion Scale e del Padua Inventory. Ossia: i soggetti che mostrano punteggi elevati all'Index of Attitudes towards Homosexuals mostrano attitudini sessuali "tradizionali", elevati livelli di disgusto e timore di diventare omosessuali; non paura o fobia e ansia. A ben vedere, in breve, non mi pare ci siano né i presupposti semantici né clinici per definire l'omofobia una malattia o fobia, laddove è evidente che è un atteggiamento.
In conseguenza di ciò, sorgono immediate alcune domande: la confusione tra atteggiamento e patologia, voluta sia dal senso comune che dal mondo accademico in generale, è dovuta a un utilizzo strumentale delle categorie mediche e psichiatriche per far valere le lotte politiche e sociali dei gruppi GLBT contro le diffuse discriminazioni che li riguardano? Ogni critica sociale della visibilità omosessuale, da parte di chi non lo è o non crede di esserlo, è veramente una forma di omosessualità incosciente? E se l'omofobia (utilizzata pure in occasione del Gay Pride del 2000) fosse, invece, un simulacro che inibisce ogni riflessione critica, cercando di condannare coloro che ritengono, socialmente, l'omosessualità ponga dei problemi?
Trovare risposte valide a queste domande non è semplice, soprattutto perché circa l'omofobia credo che il realismo sociologico sia venuto meno di recente, accompagnandosi a una responsabilità di senso comune sentita come più urgente della scientificità dei concetti utilizzati. Ciò è accaduto, a mio parere, perché si sono intrecciate due dinamiche che hanno inficiato l'uso corretto di concetti e categorie scientifiche. Da una parte il mondo accademico ha sentito il bisogno di appoggiare attivamente la lotta dei collettivi omosessuali per la rimozione di stereotipi e pregiudizi; dall'altra vero è che l'omosessualità, spesso vissuta come uno stigma, ha accelerato il declino dell'immagine positivista di una maschilità informale all'interno di una società ordinariamente regolare, soprattutto nei casi più esasperati in cui l'omosessualità viene additata come un'inquietante sfida alle norme che regolamentano la sessualità (S. Piccone Stella, 2000; V. Baird, 2003), piuttosto che relativamente alla gestione del potere sui generi o sulle maschilità subordinate. Eppure questo, quasi in un crescendo paranoico, ha reso l'omofobia la causa di tutto ciò che avviene alle persone con tendenze omosessuali quando sono discriminate; più che di sociologia, in sostanza, mi pare si tratti di attivismo politico.
In effetti essere omosessuali oggi è ancora problematico, ma come ha osservato recentemente S. Piccone Stella (2005) in riferimento al senso comune dell'italiano medio - aggiungerei di quelle persone che vivono in Paesi dove l'omosessualità non è più discriminata - è evidente si sono insinuati alcuni cunei di dubbio "nel periodo che corre dal 2000 (il Gay Pride romano nell'anno dedicato al Giubileo) ad oggi. Dubbio composito - curiosità, disagio, incertezza, interrogazione di sé, scambio di opinioni - che ha ammorbidito i giudizi, intralciato il ricorso spontaneo alla discriminazione, inquinato il gusto della condanna sommaria e quasi soppresso l'insulto"(p.I-II in S.Polito, 2005). D'altra parte, anche se sottinteso dagli studiosi che l'hanno citato, G. Weinberg (1972) si serve di ben cinque criteri di definizione per l'omofobia, ma la caratteristica citata con maggior frequenza è quella di "minaccia per i valori"(p.17). Tuttavia, il termine è stato esteso oltre l'originaria definizione dello studioso e oggi si riferisce a qualsiasi teoria che consideri l'eterosessualità superiore o più "naturale" dell'omosessualità (S.F. Morin, 1977); il ché non è senza difetti scientifici, a meno che non si vogliano considerare culture o tradizioni religiose nella storia del mondo occidentale ostili agli omosessuali come omofobiche. Più chiaramente con un esempio: quando E. Abbatecola (2005) cita alcuni "stralci di intervista riportati da Buzzi (1998, p.234)" li associa "al perdurare di pregiudizi omofobi"(p.204), ma se chiedessimo a una coppia di genitori medi, che vivono in uno Stato democratico che non discrimina, almeno giuridicamente, gli omosessuali, di scegliere tra un figlio eterosessuale e uno omosessuale, quale sarebbe la scelta dominante? Se desiderassero un figlio eterosessuale sarebbero per questo omofobi? Non è forse un diritto rifiutare lo stile di vita omosessuale all'interno dei propri valori, senza per questo avere una natura "fobica"?
E' pur vero che la loro opinione su determinati valori può essere condizionata da indagini pregne di pregiudizi, oltre che dalla propria confessione religiosa. Molti testi e articoli di scienze sociali che trattano del comportamento deviante in relazione all'omosessualità maschile e femminile, invero, lo fanno con paragoni (spesso poco chiari) alla condotta criminale, alle svariate forme di malvivenza e all'uso dell'aggressività incontrollata come rimedio per trovare la soluzione ai problemi che emergono nelle relazioni sociali quando si attuano pratiche di contestazione; oppure attraverso riferimenti affatto sereni con l'abuso di droghe, la malattia mentale ed il suicidio. Un recente studio, per esempio, è stato condotto con l'obiettivo di dimostrare che lo stato di salute psicologica, l'integrazione sociale e la qualità della vita degli omosessuali è inferiore a quella degli eterosessuali. Su 1.161 uomini, tra i quali 656 si sono definiti gay, e 1.018 donne, tra le quali 430 si sono definite lesbiche, i risultati hanno evidenziato che "uomini gay e lesbiche presentarono un rischio psicologico maggiore degli eterosessuali [...]. La quantità dei disturbi per uso di sostanze è risultata più alta tra gli uomini gay e le lesbiche, i quali riferirono di aver fatto uso di sostanze esilaranti più frequentemente dei loro corrispettivi eterosessuali. Le lesbiche dichiararono più frequentemente delle donne eterosessuali di bere alcool in modo eccessivo" [3]. I ricercatori, tuttavia, partendo dal presupposto che le sofferenze degli omosessuali siano da attribuire esclusivamente alla discriminazione e all'intolleranza della "società omofoba", hanno investigato le correlazioni di questi elementi con gli atti di bullismo subiti dai soggetti, omosessuali ed eterosessuali, e sulle loro cause percepite. I risultati sono stati che i gay e gli eterosessuali hanno riferito di aver subito atti di bullismo a scuola o episodi di violenza negli ultimi cinque anni in percentuali molto simili, statisticamente non significative. Ciò che distingueva i due gruppi di soggetti è stato, invece, l'attribuzione dei motivi degli attacchi subiti: gay e lesbiche hanno spesso attribuito le molestie o le violenze alla loro sessualità. Ossia: il motivo delle aggressioni subite (in numero pressoché uguale a quelle subite dagli eterosessuali) è stata un'estrema intransigenza nei confronti del loro orientamento sessuale. Ma è corretto, scientificamente valido, sostenere che l'intolleranza in questione è una fobia?
Viviamo in una società in cui essere visibili come diversi è faticoso tanto nei tempi che negli spazi di vita e questo è assai evidente fra quegli omosessuali che cercano costantemente di gestire lo stigma ad essi associato a scuola, a lavoro, in famiglia, attraverso i media e i rapporti sociali in generale. Per questo motivo, la piena affermazione della propria identità, quando ciò si compie, è comunque raggiunta attraverso un percorso più difficile rispetto a quello degli eterosessuali. Del resto, come indicato di recente da P. Rigliano (2001), "la fragilità e la confusione"(p.101) sembrano essere all'ordine del giorno per molti omosessuali. Ciò non autorizza, però, gli scienziati sociali all'uso indifferenziato di un concetto quale quello di omofobia; piuttosto, credo che questi dovrebbero suggerire categorie concettuali tali da valorizzare i molti discorsi e gli interrogativi che gli omosessuali pongono alla società.
A motivo di recenti sviluppi, è certamente più possibile oggi di quanto non lo fosse in passato, riprendere in mano il corretto utilizzo di categorie concettuali da parte nostra senza per questo offrire meno il proprio sostegno alle lotte contro le discriminazioni degli omosessuali, proprio in virtù del fatto che l'omosessualità in sé non desta più apprensioni eccessive. Nello specifico, come sottolinea S. Piccone Stella (1996), sembra che l'influenza del pensiero gay ha operato in direzione di una visione problematica e pluralistica dell'identità sessuale, contrassegnando e irrigidendo alcuni confini dell'identità e rendendone fluidi altri, includendo o escludendo attraverso precise regolamentazioni, additando a degli stereotipi e a delle caratterizzazioni non sempre costanti (ma continue) delle opportunità riproduttive offerte dai generi alle altre identità sessuali, tanto all'interno della categoria che raggruppa le diverse omosessualità quanto nel rapporto tra la sua visibilità e le altre categorie sessuali. Perché non approfittare di questo, piuttosto che sostenere indirettamente l'indifferenza nei confronti delle richieste degli omosessuali con l'impiego abusivo del termine omofobia?
Per coloro che sono veramente interessati a studiare i cambiamenti epocali nei rapporti tra i generi e le omosessualità, credo sia necessario acquisire coscienza che l'uso indiscriminato del concetto "omofobia" ha in definitiva autorizzato la modificazione e/o creazione di nuovi strumenti per discriminare le diversità sessuali, impressionando marchi più sofisticati e velati alla sensibilità pubblica, ma comunque riconoscibili nella riflessione (pseudo) psicologica ed estetica, mediatica e speculativa in generale di questi ultimi anni.