"Perché mi desti un'anima
Che in tal fatal conflitto,
Vinta da forza indomita,
Precipita al delitto?
Perché, gran Dio, fra i triboli
Di questa trista valle,
M'incalzano alle spalle
La colpa e la viltà?"[1]
Con queste tristi parole padre Stanislao Ceresa iniziava il suo salmo di dolore, una triste e malinconica poesia scritta nella cella del carcere dove scontava la pena di dieci anni di reclusione.
La Corte d'Assise di Milano lo aveva infatti ritenuto colpevole del reato di eccitamento alla corruzione, commesso in più occasioni nel collegio di Monza di cui era rettore.
Lo scandalo che aveva accompagnato il suo arresto fu di proporzioni colossali, non tanto perché vedeva coinvolto un religioso conosciuto e stimato per i suoi interventi e per le sue opere letterarie: non era certo una rarità, come non lo è oggi, trovare un prete rimasto impigliato nella rete del reato a sfondo sessuale.
La gravità del fatto fu piuttosto determinata dall'alto lignaggio delle sue vittime, rampolli di famiglie nobili o dell'alta borghesia ospitati presso l'allora celebre collegio di Monza.
Giovanni Alberto Ceresa, nell'ordine barnabitico Stanislao, nacque a Lodi il 24 giugno del 1820 e fu uno di quei sacerdoti dotti e preparati nel campo della dottrina religiosa; scrisse alcune opere che al tempo ebbero una certa diffusione: "Il Sacerdote - Poesie" (Besozzi 1850), "La lotta del bene e del male" (Boniardi, Milano 1861), "La scuola cosiddetta dell'Avvenire e la poesia" (Boniardi, 1872).
Il 15 maggio del 1873 la sua carriera e la sua fama di padre illuminato terminarono bruscamente: "Una grave notizia corre per la città nostra, destando sensi di disgustosa sorpresa in molte famiglie. Il Procuratore generale del Re ha spiccato un mandato di cattura contro il Padre Stanislao Ceresa, Rettore del Collegio de Padri Barnabiti in Monza, accusato di atti turpissimi verso alcuni alunni affidati alle sue cure"[2].
Padre Ceresa era accusato di "eccitamento alla corruzione", reato previsto dall'articolo 421 del codice penale del Regno di Sardegna, con l'aggravante di aver mancato al suo dovere di incaricato della sorveglianza della moralità dei giovani ospitati nell'istituto monzese.
Il padre barnabita non venne immediatamente arrestato, poiché, colto da un comprensibile stato di panico, si era dato alla fuga e, per depistare le indagini, aveva fatto spargere la voce di essersi recato presso la sua famiglia a Lodi.
La sua improvvisa e calcolata partenza non poteva non dare addito a qualche sospetto, dal momento che era avvenuta pochi minuti prima che i carabinieri bussassero alla porta del collegio di Monza. Chi aveva avvertito il padre dell'imminente arresto? Chi lo aveva aiutato nella fuga? Chi aveva collaborato nel depistare le indagini facendolo credere rifugiato a Lodi? "Comunque, sia - scrivevano i giornalisti più agguerriti - di ciò, fatto è che il Ceresa è ancora latitante; a questo proposito, tanto per soffocare, se è possibile, una maligna insinuazione, la quale vorrebbe che l'Autorità stessa non veda di mal occhio questa fuga..."[3].
Stanislao Ceresa fu invece individuato a Lugano, vestito con abiti borghesi; subito le autorità giudiziarie prepararono una rogatoria per ottenerne l'estradizione dal paese svizzero, cosa che però non fu necessaria in quanto padre Ceresa giunse di sua volontà a Milano, dove si costituì il 19 maggio alle 4.30 di mattina.
Le accuse che gli venivano mosse erano davvero pesanti, anche se la vera aggravante fu, probabilmente, l'aver coinvolto giovani di età compresa fra i 15 e i 21 anni appartenenti a famiglie blasonate e in vista, fra i quali il giovane principe Augusto Torlonia, i marchesi Ferdinando e Antonio Stampa, i conti Gaetano, Giovanni e Guido Piovene, i nobili Francesco e Luigi Litta Modigliani, il marchese Giovanni Raimondo Serpenti, il conte Giovanni Salazar, i nobili Taddeo e Gioacchino Wiel, il conte Ercole Gnocchi, il cavaliere Luigi Pestalozza, il conte Antonio Pollini, il cavaliere Ferdinando Tassati, il nobile Luigi Peregrini, il nobile Domenico Riva, il conte Carlo Negroni ed altri ancora, per un totale di venticinque convittori [4].
Il Consiglio scolastico provinciale chiese al ministero della Pubblica Istruzione l'immediata chiusura del collegio, anche se già i genitori erano accorsi a Monza per ritirare i loro figli dall'istituto dei padri barnabiti.
Stanislao Ceresa era divenuto agli occhi di tutti il simbolo per eccellenza della perversione e del disgusto. Fu la morte di Alessandro Manzoni, avvenuta il 22 maggio, a distogliere l'interesse dell'opinione pubblica e dei giornali dal terribile scandalo.
Il 26 agosto iniziò a Milano il processo a porte chiuse contro il padre barnabita e, visto l'alto numero di persone coinvolte, ci volle più di una settimana per ascoltare tutte le testimonianze.
Per la Corte padre Ceresa si era abbandonato nel periodo dal 1863 al 1873 a "lubrici toccamenti o palpeggiamenti o movimenti delle parti genitali" [5] nei confronti delle sue vittime; aveva "mediante addentatura al nudo di una natica" eccitata la corruzione di alcuni di essi mentre erano in bagno o in camera; si era abbandonato a "carezze e baci lascivi"; aveva "lubricamente posto il proprio membro virile, già in orgasmo, coperto dal vestito, sopra un braccio che Benedetto Riva teneva disteso lungo la sponda del letto, nel quale questi giaceva" ; aveva corrotto il giovane Michieli con "lubrici palpeggiamenti o con scosse all'asta virile o con simili palpeggiamenti alle parti deretane"; si era prodigato in "mossura degli occhi languidi nel toccare o palpeggiare", anche dopo la "confessione sacramentale" degli alunni; aveva corrotto il giovane Luigi Litta Modigliani "lubricamente palpeggiandolo alle parti pudende, o effettivamente manustuprandolo una o più volte fino alla polluzione, o asciugandolo all'uscire dal bagno, o baciandogli o stringendogli fra i denti l'orifizio anale, o con altri atti osceni, o con discorsi di lascivia"; ed ancora padre Stanislao era colpevole di "discorsi lascivi", "carezze sul nudo" e "intromissione della lingua in bocca" degli alunni.
Fatti che, come scrivevano i giornali dell'epoca, erano gravi al punto di non poter essere riportati: "Noi non crediamo di dovere riportare nessun brano, trattandosi di fatti tali che, si può dire col poeta, par che del puzzo il firmamento offendano" [6].
Il 2 settembre finalmente si arrivò alla sentenza. Il Pubblico Ministero, vista l'evidente gravità dei reati, chiese per Ceresa il massimo della pena, ovvero dieci anni di reclusione, poiché sussisteva l'aggravante di aver mancato al suo dovere di tutore della moralità dei giovani e di aver compiuto abusi nei confronti di essi approfittando del suo ruolo di rettore del collegio.
L'avvocato Barral, difensore del padre barnabita, puntò sulla mancanza dell'intenzione dolosa e chiese una pena che non superasse i cinque anni di reclusione.
Padre Ceresa era teso, si copriva la faccia con una mano e di tanto in tanto si tergeva il sudore. Era depresso, amareggiato ed ovviamente si sentiva solo.
Il fustigatore del pubblico costume Paolo Valera, autore, fra l'altro, de "I gentiluomini invertiti. Eco dello scandalo di Milano", riferendosi al caso del deputato De Cobain, scrisse nel 1909 che "... lo si è dovuto agguantare in Spagna, e al processo è stato un miserevole piagnucolone come il padre Ceresa, di scellerata memoria" [7].
Il giudice fu inflessibile e condannò Stanislao Ceresa alla pena di dieci anni di carcere.
L'anno seguente venne respinta la richiesta di revisione del processo, presentata presso la Corte di Cassazione di Torino e si dovette arrivare al 23 maggio del 1881 per ottenere un intervento di grazia da parte del re, che condonò al padre barnabita diciotto mesi di reclusione.
Lo scrittore e giornalista Felice Cavallotti azzardò nel 1882 una difesa del padre barnabita: "Stanislao Ceresa non era nato per essere prete: quelli che lo consegnavano giovane, ardente, innamorato di ideali, al celibato dell'altare, quelli che, invece di una ragazza, gli inflissero in moglie la Chiesa, crearono un delinquente, assassinarono un uomo. Gridano sul loro capo le colpe e la condanna sua. ... Or quale altro, ben altro cantico, entusiasta e sereno, sarebbe sgorgato dall'anima di Stanislao Ceresa, restituito per tempo alla società che lo chiamava della sua gran voce! In quale atmosfera di luce purificatrice si sarebbero espansi gli istinti febbrili, le aspirazioni al bello e al buono che erano in lui!" [8].
Il Cavallotti, che era deputato dell'estrema sinistra radicale, noto per il suo carattere a dir poco frizzante (morì nel 1898 durante il suo trentatreesimo duello), voleva dimostrare come i dettami della religione e più specificatamente il celibato avessero influito negativamente su padre Ceresa, costringendolo a cercare nei suoi allievi una forzata espressione sessuale; a suo dire, se Stanislao Ceresa non fosse stato sacerdote, avrebbe avuto "sane" relazioni di carattere eterosessuale.
Una testimonianza su quanto accadde nel collegio dei padri barnabiti di Monza venne fornita qualche anno dopo lo scandalo da un ex allievo di quell'istituto, durante un interrogatorio: il Procuratore del re Ferriani, noto magistrato e autore di diversi studi di psicologia criminale minorile, scrisse nel suo "La scuola positiva" che "Quando lo interrogai sulla vita passata ne' Barnabiti sotto la direzione del Padre Ceresa mi narrò con un'abbondanza di dettagli osceni - pur simulando un'aria computa e addolorata - ciò che lì avveniva fra lui, altri giovanetti e il direttore e uscì con queste testuali parole: - Sì, sì, signor Procuratore, il male nel sangue me lo infuse il Padre Ceresa. Ma che uomo era! Che mente, che cuore, che ingegno. Che orrore? Era un infelice! Se avesse visto que' momenti, non lo si riconosceva più. Si trasformava. Tremava tutto, nella voce vi erano de' singhiozzi. Lo assaliva come una specie di furore. Ci slacciava i calzoni con violenza, con frenesia -" [9].
Stanislao Ceresa morì non appena lasciato il carcere, nel 1881.
Lo scandalo ancora non era stato dimenticato, nonostante fossero già trascorsi otto anni dal processo. Il poeta e letterato Oliando Guerrini gli dedicò un verso satirico:
"Quando, parce sepulto il reverendo
Padre Ceresa inculcò la morale
Ai fanciulletti teneri
Le apparenze salvò certo tacendo,
chi in piazza lo portò fu il tribnale.
Sian nascoste le colpe - i cupi orrori
Dell'Averno son fiabe dei minchioni" [10].
Per certi versi forse più pietoso ed umano il pensiero di Cavallotti, quasi un'epigrafe per la sua tomba:
"Stanislao Ceresa, padre barnabita - ingegno potente e natura ardente - condannato dalle Assise per attentati al pudore, pagato per più anni, nel carcere reclusionale - il suo debito alla umana giustizia, e uscitone per decreto di grazia del ministro Villa, non potè goderne, perché subito appresso pagava il debito alla natura" [11].