Saffo: poesie. Il lesbismo di Saffo fa ancora discutere

18 settembre 2005

Questo volume è, filologicamente, la migliore edizione italiana dell'opera poetica di Saffo. Tra i suoi meriti ci sono anche quello di offrire al lettore un'ampia Introduzione, di recare il testo greco a fronte della traduzione italiana, e di costare molto poco. Si divide in due parti: la prima è costituita dall'Introduzione (pp. 5-78) di Vincenzo Di Benedetto, che analizza il contenuto poetico dei carmi e i loro principali temi, ponendo in luce la grande originalità (rispetto all'epos, a Omero) della poesia di Saffo. Il saggio è seguito da una Premessa al testo, da una breve selezione di Giudizi critici e da una Bibliografia (questa sezione è corredata anche da alcune riproduzioni di pitture vascolari, oltre che di una moneta, raffiguranti Saffo). La seconda parte (pp. 93-241) presenta le odi e i frammenti superstiti nell'ottima traduzione di Franco Ferrari, accompagnata dal testo greco e da un apparato di note. Benché non sia (ovviamente) animata da pretese poetiche, la traduzione è molto felice anche sul piano letterario, proprio perché si mantiene fedele all'originale greco, alla lingua personalissima, raffinata e insieme limpida di Saffo, alla sua essenzialità di piglio schiettamente moderno, alla sua grande carica di verità.


L'Introduzione di Di Benedetto richiede un discorso a parte. Alla base di questo saggio c'è l'idea, martellantemente espressa dallo studioso, che l'amore che Saffo prova per le ragazze che abitano il suo tiaso e il suo mondo poetico, e, senza dubbio, il suo mondo sentimentale, sia e sia avvertito dalla stessa Saffo come una malattia. Se il paragrafo 2. è intitolato Le esperienze omosessuali (e in esso Di Benedetto afferma a chiare lettere che quello di Saffo è amore - non è troppo lontana nel tempo una tradizione critica che negava, contro ogni evidenza, la carica amorosa reale e quindi l'omosessualità di Saffo, facendo di lei una sorta di direttrice di un collegio femminile), il paragrafo 3. reca l'ambiguo titolo L'eros come dissociazione e malattia. Ora, la tradizione dell'amore come malattia è antica e nobilissima: va da Platone a Racine allo stesso Proust. Ma «dissociazione» è un termine del moderno lessico psichiatrico/psicoanalitico che inquina il concetto letterario di amour-passion, quell'amore che, in qualche modo, è necessariamente una 'malattia' («divina» per Platone; carica di una richiesta di assoluto, e in certo modo distruttiva, per Racine; dalla quale infine si guarisce, per Proust). Di Benedetto sposa tutt'altro registro e suppone in Saffo un «fortissimo scarto tra sentimento e realtà», scarto, egli dice, corrispondente «a una situazione di sofferenza e nevrosi» (p. 17); e anche se avverte che «non è l'omosessualità, ma questo scarto nevrotico» la nota caratteristica di Saffo, non si fa scrupolo di inserire un concetto - «nevrosi» - tratto dal lessico psichiatrico/psicoanalitico contemporaneo, e carico di significati e implicazioni mediche fortemente negative, per definire e descrivere i sentimenti e il mondo affettivo e poetico di Saffo. Quanto all'altro, «dissociazione», qualunque lettore mediamente avvertito di cose psichiatriche e psicoanalitiche sa che esso è stato introdotto da uno dei padri della psichiatria moderna, E. Bleuler, per designare il sintomo fondamentale della schizofrenia. Nella letteratura psichiatrica si utilizza il termine dissociazione, nella letteratura psicoanalitica si preferisce quello di scissione. È evidente che questi termini, oltre ad essere del tutto impropri, concettualmente e storicamente, e in verità ingiustificati, se riferiti a Saffo, resuscitano surrettiziamente delle note sgradevoli, sovrapposte, e nosologizzanti, sull'omosessualità (uso anch'io questo termine, pace David Halperin) della poetessa. All'uso costante e ripetuto, categoriale, di concetti quali dissociazione, nevrosi, malattia, si accompagna poi quello di espressioni quali «agitazione insistente e ossessiva» (p. 18) ansia (p. 20), difficoltà, attanagliamento, e infine di vere e proprie diagnosi, quali «instabilità di fondo della condizione di Saffo» (pp. 21-22), «cerchio conchiuso e ossessivamente stringente del suo io esasperato» (p. 20), che conducono, incontrollatamente, al verdetto finale: «in Saffo non c'è nessuna proiezione verso il futuro. Saffo di fronte all'impatto dell'eros è senza radici» (p. 26). Dove è il critico che sembra aver smarrito ogni strumento di autocontrollo. Potrebbe anche venir da ridere, o sorridere, di fronte a simili disinvolte diagnosi a distanza (di millenni): ma la risata liberatoria morirà in bocca, a chi noti che non siamo lontani - che Di Benedetto ne sia cosciente o no (in fin dei conti Freud ci ha insegnato anche a riconoscere il fenomeno fondamentale della proiezione, nonché gli scherzi dell'inconscio) - dall'accusa di infantilismo psichico rivolta dalla tradizione psichiatrica e dalla psicoanalisi freudiana (oggi peraltro condivisa da pochi) all'omosessualità.


La tentazione di Di Benedetto di dare un fondamento medico "oggettivo" alla sua immagine nosologizzata e nosologizzante di Saffo è talmente forte che conduce il critico a commettere forzature palesi anche nel campo di competenze suo proprio, quello filologico. Lo studioso dà inizio a un paragrafo della sua Introduzione dichiarando che il fr. 31 (la celebre Ode impropriamente detta della gelosia) «dimostra» che «Saffo stessa sentiva la sua situazione come una malattia» (p. 26). Prescindiamo dalla semplificazione per cui momenti di espressione poetica, o anche momenti di esperienza emotiva, sono trasformati in una «situazione», e approfittiamo di tutto ciò per rileggere la grande composizione:


Mi sembra pari agli dei quell'uomo

che siede di fronte a te e vicino ascolta te

che dolcemente parli

e ridi di un riso che suscita desiderio. Questa visione

veramente mi ha turbato il cuore nel petto:

appena ti guardo un breve istante, nulla

mi è più possibile dire,

ma la lingua mi si spezza, e subito

un fuoco sottile mi corre sotto la pelle,

e con gli occhi nulla vedo,

e rombano le orecchie,

e su me sudore si spande, e un tremito

mi afferra tutta, e sono più verde dell'erba,

e poco lontana da morte

sembro a me stessa.

Ma tutto si può sopportare, perché ... [trad. di F. Ferrari].


Il corretto significato poetico del carme, e della immagine iniziale, è arcinoto: Saffo contrappone il controllo dell'uomo seduto accanto alla donna da lei mirata al turbamento che la assale alla sua vista, e per questo quell'uomo le appare «pari agli dei». Più sbrigativo, e andando al sodo, Di Benedetto sentenzia: «Le reazioni di Saffo di fronte alla vista dell'uomo e della ragazza della quale ella è innamorata sono quelle di una malata, e Saffo ne è consapevole» (p. 26). E cosa proverebbe trattarsi di una malattia, della quale, per giunta, Saffo sarebbe consapevole? Il fatto che i «sintomi» - ci risiamo - elencati da Saffo troverebbero corrispondenze con testi medici egiziani e assiro-babilonesi, in particolare «con il Papiro Ebers, scritto intorno al 1550 a.C., e con il papiro Smith, cronologicamente vicino al papiro Ebers» (p. 28). Sterminate sarebbero state le conoscenze della poetessa, incredibile la sua erudizione, se ella avesse conosciuto l'egiziano e le lingue accadiche, se avesse avuto accesso a trattati appartenenti a un altro mondo culturale e linguistico, di quasi mille anni anteriori alla sua nascita!


Ma non basta. Di Benedetto ritiene che i "sintomi" elencati da Saffo si trovino menzionati in alcuni trattati medici greci, in particolare nel capitolo 49 del trattato Sulle affezioni interne, databile tra la fine del V secolo e l'inizio del IV secolo a.C., che così suona:


Alcune volte il dolore arriva improvvisamente anche alla testa, dimodocché il malato per la pesantezza non può tenere sollevate le palpebre né ascoltare con le orecchie. E del sudore abbondante e maleodorante si diffonde sul malato, soprattutto quando il dolore lo prende, e si diffonde anche quando il dolore si allenta e soprattutto di notte. E il colorito della pelle del malato diventa quasi completamente itterico. Questa malattia è meno mortale della precedente [trad. di V. Di Benedetto].


Ammesso (e non concesso) che tra il fr. 31 di Saffo e questo passo vi siano delle relazioni, la logica, e la cronologia, dovrebbero indurre a concludere che un colto medico di molti e molti lustri posteriore a Saffo ne abbia conservato reminiscenze. Ma la scarsa verosimiglianza di questa ipotesi si rivela da sola. Lo stesso Di Benedetto annota: «è esclusa una derivazione del testo medico dal fr. 31 di Saffo» (p. 29). Osservazione condivisibile, che può solo portare a riconoscere che i due testi sono del tutto indipendenti, annullando con ciò il presupposto stesso di un loro accostamento. Invece lo studioso inopinatamente conclude (invertendo, in questo caso, la linea del tempo): «Saffo si rifaceva a una tradizione medica che solo successivamente in Grecia si è depositata in opere che sono pervenute sino a noi» (p. 29). L'artificiosità di una simile spiegazione è del tutto evidente. Ma a Di Benedetto interessava proiettare retrospettivamente su Saffo la categoria di «malato», desunta da un trattato medico del V secolo. Si noti poi che, anche ad ammettere, per pura ipotesi, il riferimento di Saffo a una tradizione orale (pre-medica), è esclusa la legittimità di usare per lei una categoria così forte quale "consapevolezza soggettiva di essere malata", la quale presuppone la costituzione di un sapere medico nella sua epoca non ancora avvenuta. In realtà i due testi presentano affinità solo apparenti, e il minimo nucleo di elementi comuni rinvia all'ovvietà di una descrizione fisica, la quale si produce in due contesti culturali, e letterari, molto diversi: autorappresentazione di uno stato d'animo e fisico nell'ambito di un carme erotico arcaico; descrizione oggettiva della sintomatologia itterica in un ambito medico e di osservazione scientifica di circa due secoli posteriore all'epoca in cui visse la poetessa.


Ora, tutto ciò è da dimenticare, perché non possiede rigore concettuale, né fondamento testuale, né giustificazione storica. Tutto sommato, a una Saffo depressa (p. 19), incapace di reggere alla realtà (p. 27), chiusa nel «cerchio esasperato del proprio io», p. 20), dissociata, se non proprio schizofrenica, e infine «malata» (p. 26), saremmo tentati di preferire, se proprio fossimo obbligati a scegliere (ma non lo siamo), la direttrice e maestra di collegio di una ipocrita, ma pur sempre rispettosa, tradizione puritana. Il che non toglie che continueremo ad apprezzare le notazioni sulla tecnica poetica e sui moduli letterari di Saffo del grecista Di Benedetto (pp. 39-78). Ma proprio qui è il problema. Perché come non vedere che al lettore, magari studente liceale o universitario, o professore di Liceo, cui è dichiarata senza mezzi termini l'omosessualità di Saffo, in un volume per altri aspetti serio, sono contemporaneamente propinati una serie impressionante di termini, categorie e giudizi pesantemente negativi sull'io, sul centro emotivo e psicologico, sulla personalità della poetessa che ha dato il nome del suo toponimo a un orientamento sessuale, a un intero mondo di persone? Il giudizio morale (negativo) è assente: il suo posto è stato preso dalla psicologia, o da un raffazzonato armamentario di derivazione psichiatrica. Sia dunque avvertito il lettore, magari studente liceale o universitario, o professore di Liceo. Ancora una volta, e necessariamente, l'utilizzazione e valutazione di un testo fondativo per la storia dell'omosessualità e della letteratura omosessuale - in un certo senso, il più grande - dovrà passare attraverso una analisi critica avvertita, e vigile.
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