recensione diGiovanni Dall'Orto
Diario dei miei 17 e 18 anni
Ho conosciuto "Marco Poggi" (è uno pseudonimo) quando sceglievo i libri per le ora defunte "Edizioni Babilonia", e mi vidi arrivare in redazione un arrapante ragazzotto muscolosotto e giusto giusto maggiorenne, con studi in agraria, che mi propose il manoscritto di quest'opera.
Il testo sottopostomi non era però quello, ampiamente migliorato e levigato grazie all’aiuto d’un bravo giornalista bolognese successivamente (e provvidenzialmente) innamoratosi dell'autore, che leggiamo qui.
Pertanto rifiutai cortesemente l'onore (e l'onere) di essere io il primo editore di Poggi.
Questa "opera prima" è un diario che racconta la storia d’un adolescente gay della Provincia italiana (ricordo che Poggi viveva - coraggiosamente - in un paesino dell’Emilia-Romagna, alle prese coi fascisti aborigeni che lo perseguitavano in quanto "busone di merda"), e al tempo stesso un'opera con ambizioni letterarie spesso più... "ambìte" che realizzate.
A iniziare dalla forma. Nel titolo si parla infatti d’un "diario", ma il testo è suddiviso in una sequela di lettere scritte a un amico immaginario, la cui opinione non interagisce mai e per nulla con quanto scrive l'io narrante. Nessuna reazione, nessuna obiezione, nessun commento: il destinatario delle lettere è uno spaventapasseri che sta lì, zitto e fermo, e subisce qualunque cosa gli venga riferita. Se Poggi avesse iniziato ogni sua lettera con "Caro Diario", l’opera sarebbe stata forse più scontata, ma anche meno arzigogolata e inutilmente complicata.
Infatti l'io narrante scrive lettere che sono null'altro che pagine di diario (come ben ha compreso chi ha scelto il titolo del libro), e che nulla hanno a che spartire con la forma letteraria del romanzo epistolare.
Già da questo goffo utilizzo improprio d'una forma letteraria emerge la non profonda familiarità dell'autore con le forme letterarie, che emerge peraltro anche da alcuni passi assai scabri, stridenti, che non so se siano stati lasciati così dal giornalista innamorato di cui sopra come artistico "non-finito", o solo come quei tasselli che si lasciano nei quadri restaurati, per mostrare come fosse la superficie prima dell'intervento...
Un secondo ordine di problemi sorge in questo libro dalla narrazione stessa. Da molti punti è palese che l'autore ha ritratto se stesso nell’io narrante. In altre parole: per molti versi il diario è per davvero un diario. Dettagli irrilevanti, che non hanno alcun senso (e interesse) narrativo, ma che vengono descritti con minuzia, hanno senso solo se li si vede come un racconto autobiografico, nel quale i dettagli valgono solo in quanto sono accaduti, magari per puro caso, e non in quanto contribuiscano al progredire della narrazione.
Ciò detto, io so, attraverso la conoscenza privata dell'autore a cui accennavo all'inizio, che quando "Poggi" pubblicò quest'opera non era affatto orfano, non gestiva un'azienda di vini ma di altro genere, non viveva in Trentino... Insomma, l'io narrante è in buona parte frutto di creazione letteraria di fantasia.
Dunque, non siamo di fronte al vero diario d'un adolescente italiano di fine Millennio - che avrebbe avuto un suo valore come documento umano - e non siamo neppure di fronte a un romanzo.
Non lo siamo perché l'io narrante ha troppo debiti con il "Marco Poggi" reale per essere un personaggio autonomo e compiuto in sé. L'io narrante è Marco Poggi, con tutti i suoi limiti umani, ma al tempo stesso è una proiezione fantasmatica di quel che Poggi sognava di poter essere, o diventare. Dunque, sta con un piede nel pedissequo e quotidiano, e con l'altro nel fantasmatico e immaginario, senza riuscire a integrare questi due piani.
Ad esempio, è palese che l'io narrante reitera rapporti sessuali umilianti e degradanti con personaggi che disprezza solo perché ha fortissime pulsioni masochistiche, che tuttavia egli non vive coscientemente (se non quando le percepisce come "turbe mentali" laddove emerge anche un lato sadico: p. 93).
Epperò, una volta adocchiato un bel maschione romano che gli piace, ecco in che termini lo sogna:
"Quante volte ho sognato di fare l’amore, di essere violentato, scopato, abbracciato, baciato, leccato, picchiato da un romano...
Quell'accento mi dà la sensazione di una persona rozza, grezza, manesca e il tutto mi eccita, mi fa venire voglia di essere stretto forte tra le braccia di un uomo muscoloso, animale e molto rude" (p. 104).
Tutto il romanzo è percorso da questo masochismo non risolto che è un problema dell’autore, e diventa ipso facto un problema del suo personaggio.
Che, sbarbatello ancora, con una famiglia manesca e ottusa, si attacca come una mignatta a un certo Omes, quintessenza del finocchio di provincia che si odia e non si accetta, che usa l'io narrante come un buco da scopare e lo maltratta in tutti i modi... garantendosi, dopo periodiche "rotture" clamorose, il ritorno ai suoi piedi dell'adolescente: disperato per il fatto di essere trattato come un buco sessuale, ma ingrifatissimo proprio da questo fatto.
Da qui un tira-e-molla in cui alti lamenti sulla cruda sorte del povero ragazzo gay di provincia maltrattato da tutti (anche da coloro che egli ama) si mescolano a travolgenti scopate che allargano molto le prospettive del ragazzetto provinciale, e non soltanto quelle.
Al masochismo irrisolto si ricollega anche la seconda - disturbante - parte del romanzo: l'adolescente protagonista, chiusa una buona volta la menata con Omes, inizia a "dare via il culo" a tutti i personaggi del cinema e dello spettacolo che riesce ad incontrare, allo scopo d'ottenere una particina in un film e "sfondare" in quel mondo. Ovviamente riesce più che altro a farsi sfondare, ma il finale, che scade nella smaccata fantasia ad occhi aperti, si conclude proprio con l'imminente e (si suppone) trionfale lancio nel mondo dello spettacolo dell'adolescente dalle ambizioni e dalle vedute larghe quanto (ormai) il suo sfintere.
Nel frattempo, strada facendo l'io narrante non la smette di lagnarsi di quanto schifo gli facciano quei vecchiacci cinquantenni che abusano del suo desiderabile corpicino di ragazzetto sodo e flessuoso, senza mai rendersi conto di ciò che è palese al lettore, cioè che la degradazione a cui soggiace è in realtà il vero obiettivo del suo comportamento: è un fine in sé, non un mezzo per arrivare ad altro.
In effetti, visto che l'autore del romanzo non ha mai fatto una cosa tanto sciocca quanto prostituirsi per recitare, è palese che tutta questa (lunga) parte del diario è solo una fantasia sessuale alquanto complicata di "Marco Poggi", e nient'altro che questo.
Quanto ho appena detto non deve far pensare che questo diario sia un romanzo erotico. In effetti, per essere il diario d’un ragazzo che dà via il culo a mezza Italia, è straordinariamente casto. Gli atti sessuali non vengono mai descritti, se non per le loro conseguenze sullo strabordante e autocommiserante io narrante e affabulante (cose del tipo: mentre mi sodomizzava selvaggiamente con un corno di bufalo zoppo papuaso io me ne stavo alla pecorina indifferente al Tutto Cosmico, commiserando me stesso e la mia triste esistenza e pensando che razza di maiale privo di cuore fosse l'uomo in cui avevo riposto immeritatamente il mio purissimo e nobilissimo amore di adolescente senza macchia e quasi vergine, a lui, lui che non era capace di darmi l'amore e l’affetto che io sognavo, e che... Oh please, pietàààààààààà!!!!).
Fin qui la pars destruens.
Sull'altro piatto della bilancia sta la freschezza narrativa del libretto, che il giornalista innamorato nonché revisore ha saputo salvaguardare pienamente (l'amore, in effetti, è il padre di tutti i miracoli).
Il fatto che l'autore manchi del senso della misura stilistica, mescolando senza criterio livelli stilistici e convenzioni di scrittura senza discernimento, finisce per dare un tono "genuino" e assolutamente godibile alla sua narrazione. Nei momenti "tragici", certi scivoloni verbali, certe goffaggini stilistiche, rendono ridicolo un insieme che avrebbe aspirato ad essere drammatico, però al tempo stesso garantiscono che l'autore non è "costruito", che non è abbastanza a suo agio con la letteratura per nascondere il meccanismo letterario (il clou è la sineddoche involontaria della "spiaggia cristallina" di p. 23).
In questo modo l'anima di Marco Poggi si mette molto più a nudo di quanto egli probabilmente fosse disposto a fare (non a caso è poi prudentemente ricorso a uno pseudonimo!). Perfino laddove l'io narrante ricorre a lodi di se stesso a un livello che non si sa se definire ridicolo o patetico (cfr. per es. a p. 24 o 56), Poggi strappa più un sorriso divertito che un moto di stizza. Ad esempio, la descrizione dei giorni passati in caserma in attesa di farsi riformare come gay, nella sua goffaggine e nel suo genuino orrore per la rozzezza e la volgarità troppo maschile di quella vita, sono un assoluto capolavoro (involontario!).
E le stesse fantasie erotiche, spacciate per esperienze reali, acquisiscono quel nonsoché di stuzzicante e titillante che di certo non nuoce alla leggibilità del libro!
Questo spiega ampiamente come mai questo romanzo così bizzarro sia stato, nel suo piccolo, un micro-caso editoriale, con oltre duemila copie vendute (un'enormità, per un editore gay come la Zoe, e una vendita di tutto rispetto, in un Paese come il nostro in cui è un best-seller un libro che vende più di... cinquemila copie).
In conclusione, non posso dire che questo sia un libro da consigliare o da sconsigliare. Non lo legga chi pretende una prosa elegante e levigata. Questo libro sa di salame contadino e vino rosso genuino, non di paté d'oca e di champagne grand-crus millesimato. È apprezzabile, ma solo se il nostro palato sa gustare una narrazione in cui l'artificio letterario non regge mai (involontariamente!) per più di due pagine, e in cui la fantasia sessuale dell'autore - stuzzicante! - occhieggia sotto i vestiti sempre troppo corti di cui è stata (mal) coperta.
Insomma: chi non aprirà questo romanzetto pretendendo d'incontrare un nuovo Proust, sia pure in versione adolescenzial-contadina, ne trarrà il giusto e dovuto diletto e divertimento.
A ciascuno il suo.