recensione diGiovanbattista Brambilla
Egeo dolce Egeo
Spunto per una lunga meditazione ci viene offerta dal film Mediterraneo di Gabriele Salvatores.
Non perché si tratti d'una pellicola eccelsa, tutt'altro, ma perché ci offre l'occasione, una volta per tutte, d'indignarci con un certo tipo d'ipocrisia e superficialità che regna nel cinema italiano.
Ci sono pagine di storia nazionale che molti preferiscono non leggere più.
È così che è andato smarrito il ricordo dell'impiego dell'esercito italiano, a fianco dell'alleato tedesco, per la conquista delle isole greche ed in particolare della sanguinosa battaglia per scacciare i britannici da Creta nella primavera del 1941.
Le vicende di repressione politica o di autocensura degli autori cinematografici del dopoguerra è ormai cosa più che nota e la si può leggere nei migliori manuali di storia del cinema nazionale.
Basti per tutti ricordare l'incarcerazione dei critici Renzo Renzi e Guido Aristarco, nel 1951, perché avevano osato scrivere la sceneggiatura de L'armata S'Agapò, film mai realizzato sulle prostitute al seguito delle truppe italiane in Grecia.
Oggi rivisitazioni del periodo bellico non scatenerebbero certo un simile accanimento censorio, eppure la realtà quando tratta delle vicende patrie si preferisce stemperarla nella banalità e nel divertissement pseudo-sentimentale, proprio com'è successo in Mediterraneo.
Salvatores ha adottato le situazioni e le atmosfere di quella "guerra dimenticata" applicandovi gli schemi della retorica generazionale "post-sessantottina" già sperimentati nei suoi precedenti film di successo Marrakech Express (1989) e Turnée (1990).
Il risultato è meramente commerciale e opportunistico, senza alcuna ambizione storicistica, anzi, addirittura ci sono delle enormi pecche di ricostruzione storica (ad esempio s'impiega un bell'aereo da turismo anni Sessanta mentre dovremmo essere nel 1943).
Il film è di un provincialismo e superficialità desolanti.
Diego Abatantuono, attore nel film, ha dichiarato:"È un film divertente, si ride, si parla di sentimenti e di uomini".
Gli uomini sono quelli abbandonati a loro stessi in un'isola non precisata dell'Egeo, lontani dal fronte di guerra e troppo distanti dalla patria per sapere che Mussolini è ormai caduto.
Per tenere occupati gli uomini, un superiore fa costruire un campo di calcio dove si svolgono interminabili partite.
Nel frattempo c'è chi si è già trovato una pastorella o chi si è fatto una "storia di canne" grazie a un turco.
Ma come fu veramente quella guerra?
Come ce la raccontano i veri protagonisti?
Grande occasione per fare innumerevoli scoperte ci è fornita dal libro autobiografico dell'ex sottotenente Gianni Baldi, poi celebre giornalista, edito da Rizzoli nel 1988 col titolo Dolce Egeo Guerra amara. Storia-Gioventù-Sentimenti: i soldati italiani in Egeo durante la seconda guerra mondiale.
Incredibile la realtà dell'epoca che emerge da questo bellissimo libro.
Con raro talento descrittivo, Gianni Baldi passa dal reportage realistico a un discorso di tipo simbolico sulla Natura e sul Piacere, in un ambiente che libera la naturalità dell'eros dalle sue costrizioni moderne.
E finalmente si parla anche del grande tabù dell'omosessualità all'interno delle truppe in maniera precisa, senza vergogna, la più vicina alle semplici pulsioni primarie e senza tanti discorsi psicologici che la giustificano.
Cadono così le false ipocrisie, da "coda di paglia", in favore della ricerca dell'autenticità e onestà del racconto, il tutto nella riscoperta dello spirito giovanile, di sacrificio, dei propri vent'anni a quegli eventi storici.
Dolce Egeo, si presenta perciò come una delle poche testimonianze, se non l'unica, dirette e fedeli della vita "segreta" all'interno delle truppe italiane nel mare greco.
Da pagina 164 in avanti si può leggere il paragrafo dal titolo I dolci ozi di Aristide.
Eccone un estratto.
Le nostre giornate ai Tre pini trascorrevano assolutamente tranquille. Solo la notte talvolta ci giungeva tramite la ricetrasmittente della pattuglia O.C. qualche segnale d'allarme per le incursioni aeree nemiche. Anche nel cielo di Lardo s'udivano ronzii vaganti, più o meno forti a seconda della distanza degli aerei, però di solito si dileguavano rapidamente. I soldati di guardia ai caposaldi, il cui servizio consisteva nello starsene sdraiati al sole sulla spiaggia o seduti all'ombra di una duna, vivevano o meglio si lasciavano vivere pigramente, allo stato di natura, come uomini primitivi, dei quali avevano adottato anche il costume succinto: un paio di mutandine o uno straccio attorno ai fianchi a mo' di perizoma. Si preoccupavano solo del rancio, che si cucinavano da se stessi, squadra per squadra, coi viveri che venivano distribuiti a ogni caposaldo dal comando di compagnia. Nelle ore della canicola si tuffavano in massa e vi rimanevano a lungo spruzzandosi a vicenda, cercando di mettersi caposotto. In quelle condizioni ambientali, lontani dalla vita civile, gli uomini sembravano aver perso il senso del tempo e della responsabilità come se fossero tornati allo stato infantile. Infatti ripetevano i giochi dell'infanzia: si rincorrevano a gara, s'abbrancavano nella lotta, si rotolavano sulla spiaggia, costruivano piste e castelli sulla sabbia. A volte s'appartavano a coppie fra i cespugli delle dune o vagavano nella macchia retrostante, tenendosi per mano come bambini. Ad osservarli nei loro atteggiamenti confidenziali, affettuosi, si traeva l'impressione che tutti si sentissero felici o per lo meno soddisfatti della loro condizione.
Anche Aristide vagabondava libero e felice tutto il giorno fra mare e collina, conducendo la stessa vita dei soldati e mescolandosi con loro. Viveva beandosi d'ozio, di natura e di parole, ossia delle cose che più gli piacevano al mondo. Perfino la sera, dopo cena, tralasciando anche il gioco degli scacchi, che ormai l'aveva stufato, scendeva a passeggiare in riva al mare, dove si godeva le brezze profumate della notte e s'avventurava in lunghe passeggiate, a suo dire "solitarie e meditative".
Alla fureria del comando di compagnia prestavano servizio due militari pugliesi, un sergente furiere e un caporalmaggiore tuttofare, un po' sarto, un po' barbiere: erano entrambi bei ragazzi, di carattere socievole, che si rendevano utilissimi al reparto per le loro varie prestazioni. Aristide li aveva presi in simpatia, anche perché erano suoi "paesà", e s'intratteneva spesso con loro a chiacchierare parlando il comune dialetto. Prima venne da me il sottufficiale, poi dopo qualche giorno il graduato. Non sapevano come dirmelo. Il sergente dopo qualche frase smozzicata, allusiva, vinta alla fine la reticenza, mi raccontò tutta la storia.
La sera dunque, quando lui se ne stava solo in fureria, magari intento a finire il suo lavoro, Aristide veniva a prelevarlo e lo portava con sé nelle sue passeggiate "meditative" in riva al mare. Senonché, una volta arrivati sulla spiaggia, Aristide lo costringeva a sederglisi accanto, fra i cespugli delle dune, e lo baciava sulla bocca. Poi gli rivolgeva "parole d'amore come a una donna".
Il sergente nel raccontarmi queste cose dimostrava una notevole impudicizia, o innocenza; tant'è che non esitava a entrare in certi particolari scabrosi come quando mi specificava che Aristide abbracciandolo gli intrecciava strettamente le gambe fra le sue.
Il caporalmaggiore quando mi si presentò a sua volta per rivolgermi le stesse lamentele, fu invece più discreto e anche molto più imbarazzato: si limitò a dirmi, arrossendo e balbettando, che insomma l'ufficiale lo molestava con le sue eccessive attenzioni.
Devo confessare che tutta questa faccenda mi provocò un certo sconcerto. Tra l'altro non capivo perché solo ora quei due, sebbene gli approcci di Aristide durassero ormai da qualche tempo, fossero venuti da me a confidarsi o piuttosto a denunciare l'ufficiale. È vero che, come comandante di compagnia, ero ritenuto responsabile di tutto quello che succedeva nel reparto; però in questo caso si trattava di fatti molto privati.
Potevo al riguardo formulare solo qualche ipotesi. Forse i due militari, temendo di esser stati visti in compagnia dell'ufficiale, volevano prevenire un'eventuale spiata con una loro spontanea confessione. Oppure si erano accorti che Aristide rivolgeva le stesse attenzioni ad entrambi e quindi, per un'oscura, intricata reazione di gelosia, intendevano vendicarsene denunciandolo a me. Certo sergente e caporale sapevano l'uno dell'altro e, a quanto sembrava, si erano anche reciprocamente impegnati a raccontarmi tutto. Però, c'era ugualmente da chiedersi se i due avessero detto effettivamente la verità. In altri termini: che cosa era realmente accaduto all'interno dello strano triangolo omosessuale?
Comunque fossero andate le cose, era certo che adesso sia il sergente che il caporalmaggiore mi presentavano i fatti in modo unilaterale, tendenzioso, cercando di farmi credere di essere stati costretti a subire controvoglia, per timore reverenziale, i comportamenti anomali di un ufficiale. In ogni caso i due militari, che dicessero la verità oppure no, mi avevano esplicitamente denunciato il tenente della pattuglia O.C. per azioni che potevano qualificarsi, secondo il codice militare, come "atti osceni e abuso d'autorità". Pertanto non mi era possibile, come comandante del settore, sotto la cui giurisdizione ricadeva anche la pattuglia O.C., ignorare l'accaduto, far finta di nulla.
Decisi perciò di parlarne ad Aristide, anzitutto perché dovevo sentire anche la sua versione dei fatti e poi perché non volevo che la faccenda trapelasse all'interno del reparto o peggio, all'esterno, presso il comando di battaglione. Ma a mia volta, mi sentivo tremendamente imbarazzato a dover affrontare lo scabroso argomento proprio con una persona che stimavo moltissimo e per la quale provavo anche un forte sentimento d'amicizia.
Per fortuna il mio interlocutore era di una qualità umana talmente fine e intelligente da saper comprendere e superare all'istante la situazione di disagio in cui entrambi, anche se per ragioni diverse, venivamo a trovarci. Io mi limitai a mostrargli, così come per caso, una delle ultime circolari del comando di reggimento sulla questione della diffusa omosessualità fra la truppa, e lui dimostrò d'intendere il messaggio indiretto, anche se non disse nulla e anzi attaccò a parlare d'altro. Da quel momento però, smise di fare le sue passeggiate notturne, o comunque non ne ebbi più notizia; e neppure ricevetti più alcuna lamentela da parte di nessuno.
II caso di Aristide, più che la circolare reggimentale, mi rivelò che anche fra i soldati della mia compagnia, sotto le apparenze tranquille, ferveva una vita segreta, o più semplicemente la vita reale delle passioni e dei sensi. Ora osservavo con ben altro discernimento i comportamenti degli uomini sulla spiaggia, specie quando si isolavano a coppie fra le dune.
D'altronde mi sembrava abbastanza naturale che una comunità maschile, senza contatti con la società civile, vivente quasi allo stato di natura, e di una particolarmente dolce e stimolante, esprimesse la propria sessualità attraverso rapporti omoerotici.
I ragazzi del 4° erano certamente ragazzi "normali" (alcuni sposati, altri fidanzati e comunque tutti portati al sesso femminile e frequentatori di casini) eppure qui, al settore, in mancanza di donne e fuori dal solito contesto sociale, dove vigevano le regole della morale comune, diventavano "diversi" e si comportavano diversamente.
Sembrava che l'istinto sessuale maschile per appagarsi non avesse necessariamente bisogno dell'altro sesso. L'eros insomma, ai fini delle sue esigenze vitali (così almeno mi pareva di capire), si dimostrava abbastanza indifferente alla diversità dei sessi.
Al commilitone Aristide l'autore dedicherà un altro lungo paragrafo dal titolo Aristide e le sue teorie che vale veramente la pena di leggere perché riporta le idee e le tesi riguardo un "orgoglio gay" intessuto di teorie estetico-artistiche, psicoanalitiche, marxiste e pro-ebraiche che mai ci saremmo potuti immaginare da un militare italiano dell'epoca.
Eppure è tutto vero!
Vero anche quando si legge a pagina 178 riguardo alle abitudini "devianti" delle truppe e di come i superiori fossero costretti a chiudere più che un occhio:
Nonostante l'esistenza del casino, anche a Vatì sembravano nascere fra gli uomini le "amicizie particolari". Un giorno, proprio per una storia di omosessuali, accade al battaglione un fatto drammatico, del tutto inconsueto: un soldato della terza compagnia ferì con una baionettata al ventre un suo compagno.
Dalle prime indagini fu subito chiaro che si trattava di un delitto passionale. Il feritore, secondo la sua confessione, avallata d'altronde dalla stessa vittima, aveva agito per un sentimento di gelosia, quasi in stato di raptus, avendo sorpreso il suo amico "sul fatto", cioè in atteggiamento d'intimità con un altro commilitone. La vicenda insomma pareva essere scaturita dal solito triangolo: lui, lei (anzi ancora lui), e l'altro.
Però il comandante della compagnia, messo in sospetto da alcuni particolari, volle ampliare l'inchiesta a tutto il reparto e scoprì così che il ferimento era solo l'atto finale di una storia d'amore e di sesso, alquanto intricata e con risvolti boccacceschi, nella quale erano implicati non solo i tre protagonisti, ma anche soldati di altre compagnie. A questo punto, siccome lo scandalo si estendeva a macchia d'olio in tutto il battaglione, venne chiamato in causa, suo malgrado, anche il maggiore Romeo, che nemico com'era delle grane se ne mostrò seccatissimo o, secondo la sua espressione, "incazzatissimo".
Del fatto in sé, come ebbe a dire, "non gliene fregava niente, perché ciascuno era libero di farsi inculare a suo piacere" perciò si preoccupava del buon nome del battaglione che, se i fatti fossero trapelati, ne sarebbe andato di mezzo. E lui stesso forse sarebbe stato chiamato a un redde rationem di fronte ai "superiori comandi". Decise perciò di lavare i panni sporchi in famiglia, intervenendo con pugno di ferro là dove c'era "il marcio" per circoscrivere e bloccare il fenomeno omosessuale sul nascere, prima che si diffondesse in tutto il battaglione.
Condotta per suo ordine un'inchiesta da parte dei comandanti di compagnia all'interno dei rispettivi reparti, si scoprì che gli omosessuali certi o probabili erano assai più numerosi del previsto. Se per ipotesi fossero stati denunciati tutti quanti (e per farlo occorrevano prove sicure, piuttosto difficili da raccogliere, data la generale omertà) si sarebbe assistito a una specie di decimazione incruenta, dalla quale le compagnie del battaglione sarebbero uscite coi ranghi falcidiati.
La questione, dunque, si riproponeva al maggiore in termini ben più gravi di quanto egli avesse immaginato. E così, di fronte all'evidenza dei fatti, il nostro comandante di battaglione, con quell'opportunismo che gli era proprio, cambiò radicalmente la sua linea d'azione: dall'ordine passò al contrordine e dal conclamato rigore alla "responsabile" tolleranza. La ventilata epurazione degli omosessuali naturalmente morì sul nascere, e a Vatì da quel momento non si parlò più di ricchioni.
D'altronde, nessuna epurazione del battaglione avrebbe sortito un qualche effetto decisivo, perché i nostri omosessuali epurati e trasferiti altrove sarebbero stati rimpiazzati dai loro consimili provenienti da altri battaglioni, con uno scambio continuo di "elementi indesiderabili". Come si diceva con una battuta: "Invertendo l'ordine degli invertiti, il risultato non cambia".
Questo e altro si trova nel volume di Baldi e spetta a voi andare a scoprire tutta un'epoca leggendo pagina dopo pagina le gioie e le tragedie di quei ragazzi italiani in guerra.
Forse così si riuscirà a capire come mai facendo i turisti a Heraklion, Haghios Nikolaos o Sitia ancora oggi molti locali parlando italiano ci ripetono "Italiani come noi... brava gente".