recensione diGiovanni Dall'Orto
Giovinotta, La. Femminismo e omosessualità nella Parigi del primo dopoguerra.
Bel romanzo sulle inquietudini morali e ideali della generazione del primo dopoguerra. Scritto nel 1922, ebbe in Italia almeno quindici edizioni, nonostante parli di omosessualità e lesbismo (in modo forse critico ma mai denigratorio).
Il romanzo descrive il contraccolpo sociale dato alla concezione tradizionale dei rapporti fra i sessi dalla prima guerra mondiale, che aveva visto milioni di donne sostituire sul posto di lavoro gli uomini che erano al fronte, facendo loro scoprire per la prima volta d'essere perfettamente in grado di fare le stesse cose che fanno i maschi.
L'azione si svolge a Parigi, dove la protagonista, svegliata bruscamente alla vigilia delle nozze dal suo tradizionale sogno d'amore, per un inganno cinico del fidanzato, ripudia la morale borghese e la famiglia, e rinasce come garçonne, ragazza emancipata che ha nei confronti del sesso e dell'amore, della vita e del lavoro, lo stesso atteggiamento disincantato dei signori uomini.
Attorno a lei numerosi sono gli omosessuali e le lesbiche: Pietro Souzais, Cecile Meere, il marchese d'Entraygues sono omosessuali, Elisabeth (Zabeth) Meer, Ginette Morin, Niquette, Michelina d'Entraygues sono lesbiche. Si vedano le pp. 13-15, 17, 67-68, 70-71, 153, 185, 194-195 (quest'ultima è addirittura un'orgia organizzata dal gruppo delle amiche lesbiche in un bordello).
La stessa protagonista, disgustata dagli uomini, passa un periodo della sua vita come amante di Niquette (pp. 122-137).
Il finale la vedrà però felicemente sposata con un uomo abbastanza "femminista" da capire le sue aspirazioni. La morale è: signori uomini, se volete che le donne vi sposino, ricordate che sono vostre pari. Pas mal.
Vivace ma mai volgare è la descrizione della vita lesbica di Parigi di quegli anni, divertite ma mai denigratorie le descrizioni dei maneggi amorosi dei personaggi gay.
Un'opera interessante, e oltre tutto anche ben scritta, che a tratti suona tanto "moderna" da farci capire che il fascismo non si limitò a "fermare" l'Italia per un ventennio, ma la fece tornare indietro di trent'anni (in questo, come negli altri campi) rispetto al livello di dibattito e di teorizzazione già possibile nel 1922.