Wild Side

30 gennaio 2005, "Pride", gennaio 2005

Non si può dire certo sia passato innosservato, ma sicuramente saranno stati in tanti ad aver perso Wild side, uscito sugli schermi italiani l’estate scorsa e vincitore del Teddy all’ultimo Festival di Berlino con la motivazione: “per la bellezza e l’onestà della storia e per il tenero ritratto dei protagonisti”.

Il film è l’opera più recente di un regista francese d’origine egiziana, Sébastien Lifshitz, che da anni propone film interessanti e profondi, molto apprezzati dal pubblico gay: dal corto Les corps ouverts al mediometraggio Les terres froides fino al recente Quasi niente, che anche in Italia ha riscosso molti consensi.

Questa volta il racconto si concentra su tre personaggi che vivono ai margini della società e che si mettono assieme, dando vita ad un triangolo amoroso decisamente particolare.
Stéphanie (Stéphanie Michelini) è una transessuale baldanzosa e sicura del fatto suo, che si guadagna da vivere prostituendosi, ed anche Jamel (Yasmine Belmadi), un giovane d’origine maghrebina, sbarca il lunario battendo nei cessi, mentre Mikhail (Edouard Nikitine) è un robusto pugile russo fuggito dal fronte ceceno che vive, senza permesso di soggiorno e senza conoscere un’acca di francese, lavorando in nero in un cantiere edile.
I tre da Parigi si trasferiscono nel nord della Francia, nella vecchia casa di campagna di Stéphanie, dove vive la madre morente (Josiane Stoléru). Lì si ritrovano uniti in un rapporto ancora più forte e stringente, ma nello stesso tempo la campagna grigia e sconfinata esaspera il loro disagio esistenziale, mentre Stéphanie è assalita dai ricordi di quando, fanciullo, già si sentiva diverso dagli altri.

Il film (il cui titolo si rifà a "Walk on the wild side", la canzone di Lou Reed) è una bellissima storia d’amore di incredibile crudezza, un incontro fra tre solitudini disperate che riescono a stare assieme senza chiedersi niente, alla giornata, fra divertimenti di poche pretese e silenzi che dicono più di tante parole. Così, tutti assieme, riescono a non cadere in quel baratro sul cui ciglio camminano pericolosamente ogni giorno.

Molte cose evidenziano il senso di questa desolazione: i molti flashback (che devono essere rimontati a mo’ di puzzle dallo spettatore per ricostruire la vicenda) la squallida ambientazione e la fotografia. Quest’ultima gioca sui campi lunghi, nella plumbea campagna o nei marciapiedi parigini, per evidenziare il perdersi dei protagonisti nel nulla, mentre i primi piani mettono a nudo il loro dramma interiore.

Lo sguardo intenso del regista appare quasi partecipe di quel dolore che sembra impregnare le passioni istintive e l’amore fisico dei tre.

Viceversa, il sesso a pagamento è mostrato senza ombra di sentimenti, sia nei rapporti orali che nelle penetrazioni, con una franchezza rarissima nel cinema non pornografico.
Acre e spiazzante, il film sembra non offrire così nessun messaggio di speranza. Eppure la storia è pervasa da una struggente tenerezza e, senza mai scivolare nel mélo strappalacrime o nella letterarietà, ferisce dentro lo spettatore, e lo emoziona.

Molto bravi i tre attori, in particolare Belmadi, l’attore feticcio di Lifshitz, e Stéphanie Michelini, incontrata per caso dal regista in un caffè parigino.
Lancinante la musica di Jocelyn Pook, autrice cara a Kubrick.

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