recensione diGiovanni Dall'Orto
Risveglio dei Faraoni, Il. Delirio paranoide di un padre del movimento gay.
Un delirio lucido e paranoide, per quanto ben pettinato e ordinato, a base autobiografica e in forma di romanzo, che era in bozze al momento del suicidio di Mario Mieli, nel 1983.
L'interesse biografico per l'autore, personaggio di spicco del movimento gay italiano (fu il leader e il guru incontrastato degli anni 1977-1982), supera oggi l'interesse narrativo di questa sequela di ricordi di famiglia e interpretazioni esoterico-lacaniane di coincidenze e fatterelli.
Personaggi e interpreti di tutto il romanzo: Mario Mieli, suo padre, sua madre, i suoi fratelli e le sue zie... e varie comparse nelle quali continuano subdolamente a incarnarsi i parenti...
Niente come questo romanzo toglie glamour ai "ruggenti" anni del primo movimento gay. Molta droga, molto sesso... troppo sesso... e troppo poco amore (e per fortuna il personaggio di "Umbertine" ne darà un poco all'Io narrante).
Insomma, un romanzo cupo: Mieli ci impone persino disgustose scene di coprofagia, che ha messo proprio per questo: per disgustare le bourgeois...
Eppure per me che ho conosciuto Mieli l'aspetto più sorprendente è stato vederlo in questo romanzo dall'altro lato della barricata. Lo conobbi, e lo vidi, come un ragazzo di 17 anni poteva vedere un uomo di 25, temuto e riverito da tutti: un semidio, praticamente onnipotente. Ora che io sono uomo, e che questo romanzo ha congelato per sempre il ricordo di quello che era il ragazzo Mario Mieli a 25 anni, non vedo più in lui la spietata, gelosa, egocentrica, onnipotente "regina" che mi appariva allora. Mi appare oggi un ragazzo spaventato che fa la voce grossa per cercare alla fin fine, e senza riuscirci, di liberarsi dalla presenza introiettata e troppo soffocante di mamma e papà.
Qui non è il travestito che si vantava davanti a tutti per le marchette che aveva fatto (lui ricchissimo di famiglia), scandalizzandomi (all'epoca mi ci voleva poco...), bensì il giovane che cercava solo un poco di amore, e che fra sballo, droga, crisi psichiatriche e ricoveri manicomiali, omofobia sociale, scontro con la famiglia ed altro (!) era pur riuscito a trovarne. Poco, però, e senza sapere come gestirlo: la cultura gay dell'epoca non insegnava cosa farne... e la dimensione affettiva di Mario era troppo disturbata perché fosse lui a potercelo insegnare.
Paradossalmente quello che manca totalmente in questo romanzo è proprio la dimensione politica dell'esistenza di Mario, che oggi è noto ai più, ormai, praticamente solo per quella. Qui le sue iniziative politiche sono liquidate in poche righe, e il mondo gay che frequentò (di cui ci sarebbe piaciuto sapere cosa pensasse) è trasfigurato in un delirio di personaggi più o meno (di solito, più) grotteschi.
C'è qui sicuramente un'ispirazione tratta dal delirio sistematizzato degli scritti di Copi (che all'epoca era lettissimo nei nostri ambienti), ma senza la sua perfidia infinita, e quindi senza la capacità di essere satirico. Mario si mostra qui più fragile, e quindi più gentile, di Copi, ma anche - a differenza di Copi - pieno di sensi d'inadeguatezza, di complessi. "È sempre così, quando nel presente si vede il vuoto: non si scorge la gioia del futuro" (p. 65).
Alla fin fine, tutta la violenza traboccante dei suoi proclami rivoluzionari ha fatto un'unica vittima: lui stesso.
(Nota: il libro, edito, senza il consenso degli eredi, da un gruppo di amici di Mario Mieli, ha circolato poco perché sequestrato su istanza della famiglia. Che in effetti è stata descritta in modo per niente gentile).
(P.S: Ma si può dire, "ebbimo" -- p. 82)?