Jacques Fath

12 marzo 2006, "Pride", n.80, febbraio 2006, col titolo "Mani di fata"

Non se ne parla più da un pezzo dello stilista francese Jacques Fath, nato nel 1912 e scomparso nel novembre 1954, dopo due anni di dura lotta contro la leucemia. Eppure fu un vero genio dei suoi tempi, invidiato, odiato e copiato dai suoi colleghi parigini Christian Dior (1905-1957) e Pierre Balmain (1914-1982). Tutti fondatori di quello stile di bellezza femminile, tanto europea quanto rivoluzionaria, per cui gli americani coniarono l'appellativo di new-look.

Naturalmente erano tutti "ziette", dalla mano fatata con ago, imbastiture e portaspilli, ma la morale dell'epoca non permetteva d'eccedere troppo in pubbliche ammissioni.

Balmain visse abbastanza da poter vedere tempi nuovi e lasciare tutto in eredità al suo fedele amico e collaboratore Erik Mortensen.

Dior invece morì appena cinquantenne, ricchissimo e celebratissimo ma assolutamente infelice. Il suo chauffeur, assai sbrigativo, ebbe a spettegolare ad una biografa: Troppo buongustaio col cibo. Troppo pingue. Si sforzava di nascondere la bruttezza esagerando con lo charme. Aveva bisogno di amanti ma non trovava che amici.Voleva dimagrire, diventare bello per quel giovane arabo che aveva fisso nei suoi pensieri. Come si può morire dal desiderio d'essere attraente per un ragazzo quando aveva consacrato tutta la sua energia vitale a rendere belle le donne?

La storia di Jacques Fath fu invece un'altra. Non certo brutto, molto affascinante per natura ma assai vistosamente effeminato, fu completamente autodidatta. Dai molti articoli, celebrativi quasi alla santificazione, apparsi anche sulle riviste italiane all'epoca della sua morte se ne riesce a trarre un quadro esaustivo.

Fin da bambino manifestò le sue spiccate propensioni estetiche, tanto che il giornalista Bonaventura Caloro, su Tempo Illustrato, scrisse con trasporto: Era figlio di un assicuratore. Sua nonna paterna era stata modellista di una sarta, che vestì per molti anni l'Imperatrice Eugenia. Forse dalla nonna venne a Jacques quel curioso istinto che a dieci anni lo spingeva a frugare negli armadi della madre e della sorella maggiore e a provare su di sè i vestiti che vi trovava. Non era vanità, né amore di scena o di teatro. Jacques aveva un senso critico molto sviluppato dell'abbigliamento femminile. Sapeva dire che cosa andava o quel che non andava degli abiti di sua madre e di sua sorella, che egli rifaceva e ai quali aggiungeva una grazia che prima non avevano. Soprattutto sui cappellini la sua mano era felice. La madre era esasperata di quel figliolo che già in età così piccola le dava continue lezioni di gusto. Quando si risposò per la seconda volta, si raccomandò caldamente al marito, che era un uomo d'affari, di toglierlo di torno.

Fu così che il patrigno cercò d'indirizzare, l'ormai ventenne pargoletto, verso il mondo degli affari come agente di cambio. Ma quando costui lo inviava alle sedute di Borsa lui riempiva il suo taccuino, invece che di numeri, di disegni di toilettes e di cappellini. L'inevitabile licenziamento, avvenuto nel 1936, fece di lui un disoccupato felice. Aveva un suo "intimo" amico sarto e andandolo a trovare riprese l'amore verso le stoffe. Iniziò a prendere lezioni di disegno, non sognando altro che donne affusolate, quasi senza fianchi, flessuose come giunchi.

Con l'amico e la sorella di questi, costituirono società ed aprirono il loro atelier. Nessuno notò le sue creazioni ma il cronista Bonaventura Caloro ci illumina oltre: Qualche volta perdeva coraggio e si rinfrancava andando a ballare. Era un giovane esile, biondo, di fattezze quasi femminili e con qualcosa di marcatamente femminile anche nel tratto: da ragazzo passava molto tempo, come le fanciulle, dinanzi allo specchio, tanto che finirono per affibbiargli il nomignolo di "pommadin"(pomatino) per la copiosa brillantina che si vedeva luccicare sulla chioma. Il suo amore per il ballo gli portò fortuna. In una sala conobbe il regista Leonide Moguy, che vedendolo ben fatto, vestito da "dandy", pensò di farne un attore cinematografico.

E non bisogna poi essere tanto svegli per capire di che natura fosse il rapporto tra i due. Comunque, il suo primo film fu un vero fiasco ma non gli nocque affatto perché nel frattempo l'attrice Eve Francis, cui era stato affidato per apprendere l'arte recitativa, s'accorse della sua abilità di sarto. Gli ordinò vari abiti e gli fece tale pubblicità che ben presto Jacques diventò il couturier preferito dalle dive di cinema e teatro.

Fu così che nel salotto della Francis conobbe l'avvente modella Geneviève Boucher de la Bruyère, diciannovenne che era stata "segretaria" della stilista lesbica Coco Chanel. Divenne la sua musa ispiratrice, lei gli fece da indossatrice e amministratrice tuttofare. L'azienda incominciò a fare passi da gigante e rivaleggiò con gli altri maghi dell'haute couture parigina.

Anche nel periodo bellico seppe prosperare, lanciando abiti in lana scozzese con lazzo ironico verso i tedeschi occupanti. Non nuovo a gesta eccentriche, si recò all'Opera pedalando su una bicicletta in frak, creando una nuova moda.

Alla fine della guerra ebbe una medaglia per meriti patriottici e il suo atelier era ormai il più prestigioso e plaudito dalle nobildonne ricchissime del tout-Paris.

Iniziarono ad arrivare anche le americane che trovarono i suoi abiti molto sexy ma mai volgari. Greta Garbo, Ava Gardner, tra le molte. Fu suo anche l'abito indossato da Rita Hayworth quando sposò Alì Khan nel 1949.

Nel frattempo aveva sposato Geneviève, da cui nacque un figlio, Philippe, nel 1943. I giornali non lo scrissero mai che lei era completamente lesbica.

La storia mi fu raccontata di persona dalla principessa "Giovannona" Pignatelli Aragona Cortés (1933- 2000), grande amica di Fath e che subì una corte, serrata ed implacabile, da Geneviève come neppure un vero playboy avrebbe saputo fare. La principessa, cui io stavo dando aiuto per la sua autobiografia, poi pubblicata nel 1997, mi disse: "Ho solo avuto due donne nella mia vita: Geneviève a cui non cedetti e la cantante Dany Dauberson per la quale ho abbandonato marito e figli a Roma nel 1960!".

I coniugi Fath apparivano in perfetta simbiosi, economico-sentimentale, genitori affettuosi ed immancabili protagonisti degli svaghi eccentrici del dopoguerra. Al mitico ballo in maschera veneziano, il 3 settembre 1951, dato a Palazzo Labia dal multimiliardario messicano Carlos de Beistegui, spopolarono con i costumi da Re Sole, tutti d'oro e diamanti.

Nel 1949 era stato richiesto come attore per il film Scandalo ai Campi Elisi di Roger Blanc e per questo era venuto a Roma. Sulla copertina di Settimana Incom si fece fotografare mentre copriva le nudità della statua di Paolina Bonaparte con il suo cappotto, di astrakan foderato di visone, dopo aver urlettato sorpreso: Quelle doit avoir froid!

All'interno del giornale, si trova una cronaca dell'eccezionale cronista mondana e gallerista d'arte Irene Brin, dal titolo Le languide fatiche di Fath. Un capolavoro assoluto di giornalismo. Vi si apprende che Fath avesse, in fretta e furia, approntato una sfilata a sorpresa delle sue creazioni per le ricche clienti romane ma che la cosa fosse stata boicottata dagli stilisti italiani.

In effetti Fath era famoso per sottoporsi a ritmi di lavoro massacranti, tredici ore al giorno per creare 800 modelli all'anno. Tra cui 120 per la casa di confezioni prêt-à-porter americana Harpert, permettendo di raggiungere una clientela meno ricca. Il suo lavoro frenetico era totale e senza sosta, persino nella creazione d'accessori e profumi. Ogni particolare, anche finanziario, era nelle sue mani e ad ogni collezione rischiava di suo impegnando persino i gioielli della moglie. Si rifiutò d'essere assoggettato da finanziatori e banche, come fece invece Dior.

Questa fu anche causa della chiusura della maison, due anni dopo la sua morte. La moglie non riuscì ad ereditare il gusto e lo stile eclettico del marito. Sopravvisse solo la linea di profumi, tra cui il Vive la Vie che deve il suo nome alle ultime parole di Jacques Fath sul letto di morte.

Su Oggi, di fine novembre 1954, il corrispondente Giacomo Maugeri fece una cronaca strappalacrime dei suoi funerali dal titolo Le più belle donne di Francia hanno pianto il re della moda. C'erano tutte le lavoranti, le mannequins, Geneviève in gramaglie griffate appositamente dal marito per l'occasione, principesse e duchesse in corteo.

Queste ultime, erano accorse al capezzale offrendosi per trasfusioni. Lui poveretto, ne scherzò, per questa sua nuova parentela di sangue con l'aristocrazia francese!

Fuori dal coro, la solita Irene Brin, pungente e arguta come non mai. Ne scrisse, in incognito, con lo pseudonimo di Cècil Aldighieri sul settimanale fascista Il Borghese di quei giorni. Velenosissima, allude al fatto che i gay volendo eleggere Fath a proprio Santo protettore, "per rivendicazione di categoria", provassero disappunto per ciò che leggevano sulle cronache di quei giorni: Un certo numero di "vindici" (ndr: i vendicatori) deplora che, vivo, Fath abbia dovuto subire alcuni rigori della legge americana. Sembra che, dopo una complicata notte a Harlem, il sarto fosse minacciato di espulsione e potesse serbare il passaporto solo a patto di tornare in America sempre accompagnato dalla moglie. Come deplorano quest'imposizione allora, i vindici deplorano oggi la congiura generale intesa a trasformar Fath in perfetto padre di famiglia, proprio mentre VyvYan Wilde pubblica un libro per dimostrare che Oscar Wilde fu un donnaiolo e mentre gli agenti di Marlon Brando lo fidanzano con modelle, attrici, torere e principesse romane a seconda dei giorni pari o dispari.

Mitica!
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