Luchino Visconti nasce a Milano il 2 novembre 1906, quarto figlio (su sette) di Giuseppe Visconti di Modrone e Carla Erba. Aristocrazia paterna e borghesia materna si incrociano nel dare a Visconti un'educazione molto rigida organizzata militarescamente dalla madre, per altro religiosissima, tramite un tutore che, nelle parole dello stesso Visconti, «forse era un grande educatore, forse soltanto un maniaco» [1], vista la sua fissazione con il pericolo come strumento ideale per temprare i giovani. Con la sua famiglia Visconti manterrà sempre un legame forte e duraturo: «non ho mai sentito la necessità di crearmi una famiglia mia. Il rapporto con la famiglia di origine mi ha sempre appassionato. Non mi sono mai allontanato dal mondo nel quale sono cresciuto» [2]. Il legame più profondo è quello con la madre, che si rafforza ulteriormente dopo il trasferimento del padre a Roma quando, nel 1924, i genitori di Visconti si dividono, si dice per via delle scappatelle di papà Giuseppe (con altri maschietti [3]). Ma tra di loro era calata anche una forte divisione ideologica: la madre, già interventista, fu poi mussoliniana convinta, il padre invece antifascista.
Casa Visconti, fornita persino di un teatro, offre all'inquieto Luchino - più d'una volta scappato di casa - anche un'ampia formazione culturale, ricca di letture e di frequentazioni con personalità della cultura del tempo, e la possibilità di coltivare una grande passione per la musica. A ciò si associa la forte impressione esercitata dal cinema, in particolare dai melodrammi delle dive, che «spalancavano gli occhi grandi come vetrate» [4].
Visconti, spesso in collaborazione con gli amici del tempo, inizia a coltivare anche la sua passione per la scrittura, ma tra la fine degli anni '20 e l'inizio dei '30 è assorbito totalmente dai cavalli, di cui diventa allevatore di fama internazionale.
Primi amori nella Parigi degli anni '30
Affascinante, colto, di bella presenza e ricchissimo, il giovane Visconti fa strage di cuori e si innamora di una principessa, che comprensibilmente preferisce chiamare Pupe anziché col suo vero cognome (Windisch-Graetz), cui dedica lettere che sanno un po' di kitsch letterario e in cui si firma «Luchi».
A metà degli anni '30, a Parigi, Luchi capisce che le principesse austriache non fanno per lui, per lo meno non quanto i biondi giovanotti tedeschi. Finisce infatti tra le braccia di un coetaneo teutonico, il celebre fotografo Horst P. Horst (1906-1999), che frequenta per quattro anni. Durante i soggiorni parigini Visconti va «sperimentando una serie di rapporti estremamente liberi e anticonformistici» [5] dando talora scandalo, come quando, nel '35, fu riportato a forza in Italia dal precettore di un suo giovane amante, Umberto Monaldi. Ma Visconti è ancora molto riservato sulle sue inclinazioni sessuali e tenta a lungo di tenere nascosto il suo rapporto con Horst: teme i giudizi della società, ma è anche personalmente a disagio nei confronti di un'omosessualità che per qualche tempo tempera frequentando anche donne [6]. Secondo la sua biografa Gaia Servadio, Visconti in seguito ebbe molti (giovani) amanti con cui intrecciò relazioni masochiste (dal punto di vista affettivo) e burrascose, condite da memorabili scenate pubbliche. Ma anche quando la sua omosessualità sarà di dominio pubblico, Visconti rimarrà estremamente riservato sull'argomento e non si confiderà mai con nessuno. Né la sua vita trascorrerà senza disagi esistenziali, crisi e profonde solitudini, riflesse appieno nei film della maturità.
Di questo periodo dovrebbe essere [7] anche l'abbozzo del romanzo Angelo che, sul modello del musiliano I turbamenti del giovane Torless (molto amato da Visconti: nel '66 progetterà di trarne in film), descrive le inquietudini di un adolescente nei confronti di alcuni suoi coetanei.
Il soggiorno parigino è anche l'occasione per conoscere Jean Renoir, che nel 1937 lo accetta come assistente (e costumista) sul set di Partie de campagne. L'esperienza di lavoro con Renoir e la frequentazione della sinistra parigina del Fronte Popolare fanno scoprire a Visconti una vocazione politica che lo porterà ad avvicinarsi, e poi ad aderire pienamente, al comunismo, e a partecipare attivamente alla resistenza antifascista negli anni della guerra, avvicinata anche attraverso la redazione della rivista Cinema, luogo di ritrovo di intellettuali oppositori del regime, benché diretta dal figlio del Duce. Sono anche gli anni in cui Visconti perde entrambi i genitori (la madre nel '39, il padre nel '41) e si trova a fare i conti con una realtà politica in cui fatica a inserirsi: la resistenza comunista diffida di lui per via delle sue origini aristocratiche, mentre quella di orientamento cattolico non ne gradisce l'omosessualità. Per altro, aristocrazia e omosessualità determineranno in seguito anche imbarazzo e diffidenza all'interno del partito comunista italiano, a partire dallo stesso Togliatti.
Tra cinema e teatro
La sua strada Visconti la trova nel cinema, con un esordio [8] tardivo (ha già quarant'anni) ma folgorante: nel 1943 dirige con Ossessione un film che, nutrendosi della cultura assorbita in Francia, anticipa di cinque anni il neorealismo e nel personaggio dello Spagnolo lascia trapelare già un primo cenno di seduzione omosessuale nei confronti del protagonista, interpretato da Massimo Girotti. Ciò che Visconti tentò in effetti nella realtà, ma alle sue lettere d'amore Girotti rispose con insulti, cui Visconti replicò con una sfida a duello d'altri tempi, anche se poi tutto finì con una cena in un ristorante di lusso.
La cultura moderna che traspare in Ossessione, con la sua visione sociale libera dalle costrizioni del regime e dalle asfissie della società italiana degli anni '40, segna anche il lavoro di Visconti in teatro, pure quello rivoluzionario e caratterizzato da un certo gusto per la provocazione intesa come strumento per costringere il pubblico a riflettere e a non subire passivamente lo spettacolo. Ricorda Visconti:
Giorgio Strehler, Orazio Costa, Ettore Giannini ed io. Abbiamo costruito noi il nuovo teatro, bene o male che sia. Più che un lavoro d'invenzione, la nostra fu un'opera di ripulitura. Bisognava mettere ordine sul palcoscenico, imporre una disciplina nuova agli attori, dare allo spettacolo un'impronta di verità. Soppressi la figura del suggeritore, lottai contro il vecchio vizio dell'improvvisazione, imposi orari di ferro a un pubblico ritardatario, poco rispettoso del nostro lavoro. Moriva così il teatro italiano di stampo ottocentesco. [9]
Nel teatro italiano Visconti infonde un repertorio nuovo e moderno, soprattutto francese (Cocteau, Anohuil, Sartre) e statunitense (Hemigway, Tennesse Williams, Arthur Miller), accanto a una rilettura di classici come Goldoni, Shakespeare e Cechov. Nel 1945, in particolare, Visconti scandalizza i benpensanti mettendo in scena l'Adamo di Marcel Achard, nel quale un giovanissimo Vittorio Gassman interpreta un omosessuale. L'opera suscita vivaci polemiche e interventi della magistratura. Visconti risponde, dalle colonne di Dramma, che l'omosessualità ormai non è più un problema, mentre Achard, infastidito, vieta alla rivista la prevista e già annunciata pubblicazione del testo della sua opera [10].
E' anche a forza di scandali che Visconti si fa un nome. I suoi lavori, del resto, suscitano sempre divisioni e polemiche, anche e soprattutto politiche. Così è per La terra trema (1948), in cui rilegge i Malavoglia di Verga in chiave populista, di modo che i "vinti" dello scrittore verista diventano coscienti dei conflitti di classe. Il film, girato ad Aci Trezza utilizzando gli abitanti del luogo come attori, secondo i dettami neorealisti più puri, lascia trapelare spesso e volentieri la presenza di una mano che organizza la materia al di là di ogni realismo improvvisato. Si capisce insomma che il neorealismo va stretto a Visconti. La conferma si ha già con il successivo Bellissima (1951), su soggetto di Zavattini ma opera decisamente critica nei confronti del mondo del cinema, fabbrica di sogni e di pie illusioni. Anna Magnani vi interpreta una madre vulcanica, tipicamente viscontiana, che cerca di fare ottenere con tutti i mezzi alla figlioletta una parte di un film di Blasetti, senza preoccuparsi minimamente degli effettivi desideri della bambina.
Visconti può rivolgersi ora ai suoi interessi più sentiti, l'eredità culturale della sua gioventù: il romanzo ottocentesco, il melodramma, le tradizioni aristocratiche con le quali si trova a fare i conti in un rapporto di odio-amore che non ha ancora avuto modo di pacificare. Ed ecco tutta una serie di adattamenti letterari che egli stesso sceneggia, con l'aiuto, tra gli altri, della fedele Suso Cecchi D'Amico. Si va dal melodramma risorgimentale Senso (1954), da Boito, a quello più intimo Le notti bianche (1957), da Dostoevskij - favola dolente sull'amore in cui ha un che di fantasmatico la presenza di Jean Marais, musa e compagno di Jean Cocteau -, fino a Il gattopardo (1963) da Tomasi di Lampedusa.
In mezzo ci sono anche soggetti originali come Rocco e i suoi fratelli (1960) e Vaghe stelle dell'orsa... (1965), oltre a tanto teatro e tanta opera lirica (a partire dagli anni '50, di cui si ricordano in particolare le collaborazioni con l'amatissima Maria Callas). E tanti amori, tra i quali quello, non corrisposto, per Alain Delon.
L'ultimo Visconti
Visconti lascia infine che i suoi interessi più autentici, a livello culturale come a livello personale, si sfoghino liberamente in una produzione che forse anche per questo è la sua più discussa. Il melodramma e il romanzo romantico-decadente sono le forme espressive più vicine al sentire di Visconti e nella sua produzione, isolata e radicalmente diversa da quella dei suoi contemporanei, si fanno sempre più assillanti i temi della decadenza e della morte, individuale come epocale. Lo stesso regista ne era ben consapevole:
Sì, sono un decadente [...]. Mi piace molto. Mi divertirebbe meno essere accusato di futurismo. [...] I cosiddetti "personaggi positivi" nei miei film hanno uno sviluppo relativamente limitato. Preferisco raccontare le sconfitte, descrivere le anime solitarie, i destini schiacciati dalla realtà. Racconto personaggi di cui conosco bene la storia. Ognuno dei miei film forse ne nasconde un altro; il mio vero film, mai realizzato, sul Visconti di ieri e di oggi. [11]
Già con Il gattopardo e sempre più con le opere successive, i film di Visconti assumono l'aspetto di grandi affreschi funebri, di sontuosi requiem epocali in cui si canta la fine di intere epoche e di intere classi sociali, senza che il posto lasciato libero da ciò che decade e si corrompe sia occupato da nuove realtà vitali. La sinistra progressivamente prende le distanze, la politica in generale si interessa più a Pasolini (che offre maggiori spunti di polemica e di scontro) che a Visconti, la critica lo capisce sempre meno (ancora oggi la tentazione di liquidare i suoi ultimi film senza troppi complimenti è piuttosto diffusa).
La "trilogia tedesca", composta da La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1972) e Ludwig (1973), cui avrebbe dovuto aggiungersi La montagna incantata, avvia una produzione ancora più intima e problematica, introspettiva e a tratti autobiografica (punto quest'ultimo, un po' controverso).
Inizia ora anche la relazione - burrascosa, come tipico di Visconti - con il giovane Helmut Berger, un biondo cameriere tedesco che il regista, novello Pigmalione, cerca di trasformare in attore drammatico: gli affida prima una particina in La strega bruciata viva (episodio di Le Streghe, 1967), quindi un ruolo decisamente più significativo in La caduta degli dei, dove Berger si presenta allo spettatore imitando Marlene Dietrich per vestire poi i panni del rampollo viziato e degenerato di una potente famiglia industriale negli anni dell'ascesa del nazismo. Visconti lo promuove ulteriormente a protagonista in Ludwig, dove Berger interpreta il bel principe malinconico (e un po' megalomane) che amò i boscaioli bavaresi e la musica di Wagner più degli impegni di stato, e infine lo vuole come ex sessantottino e prostituto di lusso in Gruppo di famiglia in un interno (1974). La metamorfosi di Berger non potrà mai dirsi riuscita pienamente, e infatti la sua carriera si è poi trascinata senza grandi successi, tra televisione, film di basso livello e particine modeste.
Per Berger non c'è invece spazio in Morte a Venezia (e l'attore se la prenderà non poco per questo), che degli ultimi film di Visconti è l'unico a riscuotere ampi consensi, anche se non sono mancate le incomprensioni e gli imbarazzi per la componente omosessuale del soggetto, spesso e volentieri rimossa dalla critica (ciò che era accaduto anche per il romanzo di Mann cui il film è ispirato).
Dopo aver dedicato molti sforzi a un progetto cinematografico dalla Recherche di Proust che non vedrà mai la luce, Visconti si rivolge a D'Annunzio per L'innocente (1975), il suo ultimo film, girato in condizioni rese proibitive dalla malattia che lo porterà alla morte, il 17 marzo 1976, prima di averne concluso la postproduzione.
L'omosessualità nel cinema di Visconti
Nonostante tutte le polemiche e le divisioni suscitate dal regista e dall'uomo, in Italia Visconti ha goduto più di altri registi di una fortuna critica costante, che non gli ha fatto mai mancare, nei quasi trent'anni che ci separano dalla sua morte, l'attenzione degli studiosi, non solo italiani. Di questa posizione privilegiata di Visconti è significativa dimostrazione il restauro di tutti i suoi film realizzato nell'arco degli anni '90 su iniziativa della Cineteca Nazionale, che ha permesso tra l'altro di vedere nella loro forma originaria film come La terra trema, Rocco e i suoi fratelli e Ludwig circolati solo in versioni epurate quando non mutilate (Ludwig si è potuto vedere per molti anni solo in un versione ridotta a circa la metà della sua lunghezza originaria).
Ma in questa fortuna critica il tema dell'omosessualità ha avuto ben poco spazio [12]. Ed è un tema molto problematico. L'ambiguo Spagnolo di Ossessione, la schiera di debosciati delle SA in La caduta degli dei, il principe debole (e alla fine forse persino frigido) di Ludwig, lo squallido Morini che costringe Simone a fargli da amante in Rocco e i suoi fratelli, vecchi cadenti ritirati dalla vita come l'Aschenbach di Morte a Venezia e il professore di Gruppo di famiglia in un interno, marchette arresesi ai rovesci del destino come il Kurt dello stesso film: non è proprio la rappresentanza che ci si aspetterebbe da un omosessuale dichiarato, che già nel '45 scriveva che l'omosessualità non è più un problema e che era alieno dalle fisime religiose che tormentavano un Pasolini. Insomma, quello di Visconti non è un cinema militante.
Certo occorrerebbe un discorso a parte per ciascun film, e soprattutto per quelli più complessi e ambigui, in particolare La caduta degli dei e Morte a Venezia [13]. Ma in termini generali si deve tenere presente che la sessualità (anche eterosessuale) nel cinema di Visconti non è mai oggetto di un discorso e fine della rappresentazione, ma è sempre e solo il luogo di drammatizzazione dei conflitti individuali e in particolare intrafamiliari, i quali a loro volta riflettono conflitti storici e condizionamenti sociali. In altre parole, questi film non parlano di sessualità, ma la rappresentano per significare altro, la usano come puro espediente narrativo per riflettere una luce particolare su alcuni temi che, quelli sì, interessano davvero il regista, quali la decadenza storica e sociale, il disfacimento dell'aristocrazia e dei suoi valori, la dissoluzione dei nuclei familiari (declinata caso per caso su tutta la scala sociale, dal proletariato all'aristocrazia) che di quella società morente sono espressione. In questo quadro letterariamente decadente dove la sessualità è legata a una sensibilità esasperata e, quando va bene, a un'ottocentesca retorica della malattia, non ci si può certo aspettare che sia rappresentata in modo vitale ed entusiasta. Al limite Visconti la sfrutta come uno strumento provocatorio, rappresentandola spesso in forme "devianti" dalla norma: non solo omosessualità, ma anche incesto, pedofilia (eterosessuale, in La caduta degli dei), orge "dionisiache", ecc. Di qui a utilizzare la sessualità (di nuovo, non solo l'omosessualità) per rappresentare la degenerazione e l'immoralità di certi personaggi il passo è breve, e Visconti lo compie più di una volta, forse senza nemmeno rendersi conto di tutte le implicazioni che rappresentazioni simili, sempre più anacronistiche negli anni, potevano comportare.
Certo la sensibilità omosessuale di Visconti filtra con una certa evidenza nel modo in cui, in tutti i suoi film, filma i corpi maschili, dal Massimo Girotti di Ossessione al Gino morente di Vaghe stelle dell'orsa fino ovviamente all'amato Berger esposto in tutta la sua nudità in Gruppo di famiglia in un interno, e anche laddove meno la si aspetterebbe, come nell'ambiguo sguardo posato dal Giannini dell'Innocente a esplorare il corpo del più giovane rivale, nudo sotto la doccia, in lenta panoramica verticale. Più in generale, il cinema di Visconti è intriso di una sensualità intensa quando non esasperata, che si esprime a tutti i livelli della messinscena. Ma il fatto cui dobbiamo rassegnarci è che i film di Visconti ci dicono poco o nulla della sua concezione dell'omosessualità. Le dichiarazioni rilasciate ai tempi dello scandalo di Adamo così come il rifiuto di approfondimenti specifici nelle sue testimonianze successive, la noncuranza con cui all'epoca della lavorazione di Morte a Venezia lesse Sul matrimonio di Mann, che non sembra avergli causato alcun fastidio, la naturalezza con cui, mentre filmava la decadenza di uno scrittore che si scopre omosessuale, lui sessantacinquenne la sera a Cannes portava il sedicenne Bjorn Andresen in un club gay, dove questi si sentiva mangiato vivo dai camerieri [14], inducono piuttosto a pensare che Visconti vivesse come due realtà ermeticamente separate - per ciò che riguarda la sessualità - i racconti dei film (che non equivale a dire i suoi film) e le esperienze biografiche, senza considerare che i primi potevano avere una grande influenza sulle seconde, per molti spettatori.