A cinquant'anni dalla scomparsa di Gide, lo scrittore francese, pur attualmente un po' in oblio, continua ad essere uno dei capisaldi della cultura gay, che gli deve tanto, per coraggio e forza intellettuale.
Cinquant'anni fa, esattamente il 19 febbraio del 1951, moriva a Parigi André Gide, onusto di una fama suggellata dal Premio Nobel conseguito quattro anni prima. Unanimamente considerato uno dei protagonisti della letteratura mondiale ed il più grande scrittore in lingua francese del secolo, in vita fu però osteggiato da molti, e non solo in patria, principalmente per due motivi: l'omosessualità e l'accesa simpatia per il comunismo.
Per quest'ultima, però, aveva saputo farsi perdonare. Gide divenne sostenitore della bontà del comunismo dopo alcuni viaggi, effettuati a partire dal 1925, in Congo e in Ciad, che gli fecero acquistare una coscienza politica, nel prendere atto dello sfruttamento degli indigeni da parte delle avide compagnie francesi. Per anni, così, fu convinto che il comunismo fosse l'unico sistema sociale augurabile ma, dopo il suo viaggio in Unione Sovietica nel 1936, sconfessò pienamente le sue idee. Il confronto con la realtà sovietica fu impietoso; a dargli fastidio non fu solamente la bassezza del livello di vita, le miserrime paghe degli operai, la burocrazia oppressiva, il servilismo dilagante, le migliaia di deportati ma soprattutto il fatto che il paese del "socialismo reale" avesse etichettato l'omosessualità un "vizio borghese". Si dice che i sovietici, per farsi belli davanti a colui che avrebbe potuto testimoniare la grandezza della nazione di fronte all'Occidente, abbiano procurato, in maniera più o meno evidente, a Gide ed al suo amante Pierre Herbart alcuni splendidi ragazzi russi, con i quali i due vissero molte avventure; lo scrittore però non cadde nella trappola, rimanendo anzi colpito dalla durezza, addirittura superiore a quella dell'Inghilterra vittoriana, con cui il codice penale sovietico condannava l'omosessualità. Cercò anche di incontrare Stalin, ma questi si rifiutò di riceverlo. Così, nel 1937 dette alla stampe il celebre Ritorno dalla U.R.S.S., che segnò la fine dell'esaltazione del comunismo, con buona pace dei tanti infastiditi da posizioni tanto radicali, sia pure in un contesto di intellettuali per lo più votati a sinistra.
Per l'omosessualità, viceversa, il discorso fu ben differente. Lungi dallo sconfessarla, col passare degli anni Gide, cosciente delle sue inclinazioni sin da quando era fanciullo, la visse sempre più intensamente ed in maniera sempre meno nascosta, pagando di persona le sue scelte.
L'anno dopo la morte, la sua opera omnia venne infatti messa all'indice dalla Chiesa ma, di fatto, era già introvabile anche nelle biblioteche. Furono in molti a non perdonare allo scrittore, pur maestro spirituale di due generazioni di letterati, l'ostentazione della propria omosessualità. In particolare, con lui furono durissimi gli scrittori cattolici, come François Mauriac o Paul Claudel. Quest'ultimo arrivò a dire che sul suo volto c'era "il marchio incancellabile del suo vizio", dal quale tuttavia sarebbe potuto "guarire", e che l'affetto che nutriva per lui si mischiava ad un orrore sicuramente legittimo. Né poterono far niente le giustificazioni dello scrittore, il quale gli confessò che "Io non ho scelto di essere così. Posso lottare contro i miei desideri, posso trionfare su di essi; ma io non posso né scegliere l'oggetto di questi desideri né inventarmene altri, su ordine o per imitazione". In seguito, Claudel arrivò a paragonarlo a Socrate, in quanto "avvelenatore dei giovani", o addirittura a Lucifero in persona.
Gide era nato a Parigi nel 1869, figlio unico di una famiglia di buona borghesia: il padre Paul era un protestante ugonotto originario di Uzès, una cittadina della Francia Meridionale, mentre la madre Juliette Rondeaux era una cattolica normanna di Rouen. Finché il padre non scomparve, nel 1880, il ragazzo fu sballottato fra la comprensiva educazione paterna e quella della madre, drastica nell'imporgli un forte rigore morale e religioso. Di fatto, però, a prevalere fu quest'ultima. A otto anni fu iscritto alla Scuola Alsaziana, famosa per la severità con cui formava gli alunni; scoperto a masturbarsi sotto il banco, André venne sospeso per tre mesi, dovendo inoltre subire le rozze intimidazioni di un medico, il quale lo terrorizzò con la minaccia di castrarlo. Morto il padre, il ragazzo rimase totalmente preda della madre ("E mi sentii d'improvviso tutto avvolto da quell'amore, che ormai si richiudeva su di me"), dilaniato fra due poli spirituali: una morale da rispettare a tutti i costi e la ricerca di un piacere che diventava sempre più pressante. Una situazione che, da ragazzo così come da adulto, scontò anche sul piano fisico, attraverso svariate malattie.
Nel frattempo, cominciò a scoprire le proprie potenzialità di scrittore, soprattutto da quando a sedici anni ebbe accesso alla biblioteca paterna. Nel 1890 dette alla luce il primo libro, i Cahiers d'André Walter. Si tratta di un'opera fortemente autobiografica, imperniata sul rapporto che lo legava a sua cugina Madeleine Rondeaux, di due anni più grande, di cui si era invaghito già all'età di tredici anni, di un amore puro e spirituale quanto assolutamente non erotico, e sulla quale aveva già deciso che sarebbe stata la sua sposa. Spronato da alcuni scrittori, come Pierre Louÿs e Paul Valéry, l'anno successivo pubblicò il Traité du Narcisse, a cui fecero seguito, via via, tutti gli altri libri, che costituiscono un ricco corpus di più di 60 opere.
A dare una violenta sterzata alla sua vita fu l'incontro, nel novembre del 1891, con Oscar Wilde (che avrebbe poi rivisto altre tre volte nella sua vita), allora all'apogeo del suo successo, sia letterario che in società. Con i suoi aforismi ficcanti ed il suo trasgressivo snobismo, Wilde traumatizzò Gide. Il diario dello scrittore notifica quanto sia stato devastante quell'incontro per il ventiduenne André e quali falle vistose abbia aperto nel suo rigoroso protestantesimo: "Wilde s'impegna religiosamente a uccidere ciò che mi resta dell'anima, perché sostiene che per conoscere un'essenza è necessario distruggerla; vuole che mi penta della mia anima". Ritiratosi ad Uzès, Gide si tuffò a capofitto nei suoi studi, credendo così di aver definitivamente allontanato i fantasmi di Wilde, ossia di un sesso che non aveva ancora conosciuto in pratica e che, proprio per questo, lo logorava ancora di più.
Per provarlo non dovette però attendere molto. Nel 1893, Gide decise di andare con l'amico pittore Paul A. Laurens in Tunisia. Il Maghreb fu una folgorazione in ogni senso, sia visivo che erotico. Ammalatosi di tubercolosi, a Susa conobbe per la prima volta il sesso con Alì, il loro giovanissimo portatore. Investito da un forte complesso di colpa, durante l'inverno trascorso a Biskra andò a letto assieme a Paul con una prostituta, Meriem, ma poi scrisse che: "Quella notte me la cavai bene perché, chiudendo gli occhi, immaginavo di stringere tra le braccia Mohammed", ossia il fratello adolescente di Meriem. L'arrivo della madre a Biskra, turbata dalle strane lettere del figlio, significò per lui il ritorno a Parigi. Ma ormai il processo era irreversibile, giacché il piacere sessuale era riuscito a scardinare la forza del dovere morale. L'attrazione per gli adolescenti diventò primaria. Così, quando due anni dopo ritornò in Africa, a Blidah, fu ben altro l'ardore con cui Gide visse le proprie esperienze sessuali, moltiplicate ed ormai vissute senza remore, spinto anche da Oscar Wilde e Alfred Douglas, che soggiornavano nella cittadina algerina.
Al ritorno in Europa, la morte della madre lo renderà, oltre che erede di una cospicua ricchezza, finalmente libero del suo futuro. Pochi mesi dopo, sposò dunque Madeleine. Il matrimonio, che non sarà ovviamente mai consumato, iniziò con un viaggio di nozze, guarda un po' in Tunisia.
Da allora, Gide non fece più niente per nascondere la propria omosessualità. Per di più, l'amicizia di Henri Ghion lo introdusse negli ambienti parigini dove era possibile procurarsi facilmente dei ragazzi. Nel maggio del 1917 inizierà il rapporto più importante della sua vita, col giovane quindicenne Marc Allégret, di folgorante bellezza, figlio del suo ex precettore (il quale, senza mai sospettare niente, lo lasciava volentieri a "l'oncle André"). Il rapporto con Marc, fortissimo (arrivò a voler uccidere Jean Cocteau, reo di avergli rubato il ragazzo per una notte) decretò automaticamente la fine di quello con Madeleine. Costei - per incredibile possa sembrare - non aveva mai capito niente del marito; a schiuderle gli occhi sulla verità fu una lettera di Marc aperta per sbaglio. Fu la fine di ogni cosa: bruciò tutte le lettere del marito (il quale disse: "Soffro come se lei avesse ucciso nostro figlio") e si ritirò in campagna fino alla morte, avvenuta nel 1938.
La lontananza dalla moglie liberò dell'ultima remora Gide, che in quegli anni si affermava come il più celebre scrittore francese vivente. Il rapporto con Marc (che diventerà in seguito uno dei più importanti registi francesi) diventò sempre più stretto; fu con lui che viaggiò nell'Africa subsahariana. Nel frattempo, nel 1923, lo scrittore aveva avuto una bambina, Catherine, da Élisabeth Van Rysselberghe, al quale si offrì quando seppe che lei voleva un figlio al di fuori del matrimonio ("provo desiderio per i giovani. Ma non mi rassegno a vederti senza figli, e a non averne io"). Nel 1929, poi, scemato un po' il rapporto con Marc, conobbe il ventiseienne Pierre Herbart. Fu un colpo di fulmine. Due anni dopo, fu annunciato il fidanzamento di Élisabeth e Pierre; i due, assieme ad André e alla piccola Catherine, dettero vita ad una famiglia assolutamente particolare, nel quale il giovane si divideva fra la donna e lo scrittore. La situazione durò per molti anni e Pierre, che fu il compagno dei molti viaggi che Gide fece negli ultimi anni della sua vita, diventò uno degli esecutori testamentari.
A distanza di cinquant'anni dalla scomparsa, Gide è oggi un po' dimenticato. Nessuno osa mettere in discussione la grandezza dello scrittore, capace di esprimersi compiutamente in ogni genere letterario, così come quella di un intellettuale che ha avuto il coraggio di esprimersi la propria opinione in ogni campo. Ciò nonostante, non è particolarmente amato, soprattutto dalle ultime generazioni, come non lo fu per la sua, anche a causa di un carattere intransigente quanto indifferente agli altri, se non addirittura egoista.
I motivi sono molteplici. Alla base c'è forse il fatto che non è facile avvicinarsi alla sua opera. Un po' perché, pur avendo scritto molto - fra cui alcuni dei libri fondamentali del secolo appena trascorso, come La porta stretta (1909), I sotterranei del Vaticano (1914), Sinfonia pastorale (1919), I falsari (1925) - nella sua bibliografia manca in realtà un vero capolavoro e, più che mai, un'opera che funga da summa del suo pensiero. Senza dire che il suo stile, giudicato eccellente dai francesi, appare oggi un po' verboso e retorico, soprattutto quando difende razionalmente le proprie posizioni teoriche.
Di fondo, si ha poi l'impressione che alcuni suoi discorsi, così come la maniera di esporli, siano desueti (alcune opere, come il Corydon, sono al giorno d'oggi francamente difficilmente leggibili). Proprio qui però è il punto. Se alcune posizioni di Gide appaiono oggi sorpassate è perché la società è, per fortuna, molto diversa da allora. D'altra parte, se lo è diventata è anche grazie a persone come lui, che hanno fatto molto affinché le proprie idee si avverassero in un futuro non lontano. Nella sua ricerca della felicità, al di là di una morale precostituita, Gide preconizza infatti l'arrivo di una generazione liberata da contrasti sessuali, nella quale ciascuno potrà vivere le sue inclinazioni alla luce del sole. Una speranza di un mondo migliore che trova i suoi punti più forti nella lotta contro l'ipocrisia cristiano-borghese, in particolare contro la famiglia ("Famiglie vi odio! Focolari impenetrabili, porte chiuse; geloso possesso della felicità"), nel desiderio di libertà (espresso anche con i continui viaggi), nell'anticonformismo (arrivò addirittura a giustificare "l'atto gratuito", presente ne I sotterranei del Vaticano nel personaggio di Lafcadio, ispirato a Pierre), e nella lotta contro ogni forma di repressione.
Quando Gide iniziò a parlare di omosessualità, a farlo erano proprio in pochi, anzi pochissimi, e a ben donde: era ancora fresca l'esperienza di Oscar Wilde finito in carcere e messo ai margini dalla società, e non solo inglese. Non si poteva certo parlare chiaramente. Dice Jean Paul Sartre: "La seconda generazione dei simbolisti era convinta che lo scrittore potesse trattare senza screditarsi solamente un ristretto numero di argomenti, tutti molto elevati, ma che potesse poi esprimersi, su questi argomenti, come gli pareva. Gide ci ha liberato da questo sceltismo ingenuo: ci ha insegnato o ricordato che tutto si può dire - e qui sta la sua audacia - ma secondo ben precise norme del dire bene - e qui sta la sua prudenza".
Chi dunque si avvicina all'opera di Gide, tranne rari casi non troverà descrizioni erotiche dirette ma solo accennate, direi soffuse. In compenso, a livello teorico il discorso è audace e acuto, come quando viene a galla la coscienza di una società costruita sui modelli eterosessuali, che castrano chi la pensa diversamente. Non poco per uno scrittore lacerato da dubbi e da rimorsi, squassato da un conflitto interiore che vede contrapporsi l'etica e l'istinto.
Da questo punto di vista, Gide può essere paragonato a Pasolini, a cominciare dalle contraddizioni esistenti nelle loro opere (anche in lui, spesso, affiora la parola "vizio" a proposito dell'omosessualità...), benché il discorso marxista sia meno presente nella poetica del primo (il suo comunismo è più cristianeggiante che marxista). In ambedue, comunque, entra in gioco lo stridente contrasto fra la ricerca di un piacere fisico mai domo e la cultura religiosa di base, un rigido protestantesimo d'impronta calvinista nel caso di Gide. Un intellettuale che ha sollecitato - forse la cosa più bella che ha lasciato ai posteri - un'idea di uomo fluttuante, in preda a tutte le pulsioni sensuali e spirituali, ma sempre vigile a non accettare nulla senza il più rigoroso esame personale.
Non c'è un solo libro gidiano che non sia ovviamente percorso, in maniera più o meno esplicita, dai temi portanti della sua poetica: la tensione fortissima fra piacere e dovere e fra spiritualità e carnalità.
L'opera da cui conviene partire è pur sempre il Diario 1889/1939, fondamentale anche per capire cinquant'anni di cultura francese. La prima opera, però, in cui l'omosessualità comincia ad essere presente in maniera più diretta è I nutrimenti terrestri (1897), dal taglio pedagogico, dedicata a "Natanaele, un adolescente ancora prigioniero dei riti sociali e culturali". Attraverso la figura dell'educatore Menalca, ispirata evidentemente a Oscar Wilde, si danno precetti a questo ipotetico ragazzo su come realizzare la propria felicità, in relazione ad una propria morale, che esalti sia i sensi che le esigenze spirituali. Con sole 500 copie vendute, il libro fu un assoluto insuccesso, ma permise a Gide di fare la conoscenza di Henri Ghion, l'unico che recensì entusiasticamente l'opera.
Ormai il dado era però tratto. Nel 1902 fu la volta de L'immoralista, che fu così riassunto dall'artista: "Un giovane e distinto pederasta (sissignore!) prende coscienza della sua vocazione in seguito ad una malattia. Sposatosi durante il suo vecchio regime, il nuovo al quale è convertito si addice meno al suo matrimonio - e viceversa. Sempre più infastidito dalla moglie, la sopprime a poco a poco; infine, sedendosi a tavola davanti al dolce, sorride e mormora: Finalmente solo". L'opera, concepita inizialmente come Vita di Menalca (poiché pure qui c'è un personaggio con questo nome, che scavalca le leggi borghesi), è ovviamente autobiografica: tutto - il matrimonio, la tubercolosi, l'Africa, la scoperta dell'omosessualità - si rifà agli episodi relativi ai primi due viaggi africani dello scrittore. Anche qui, dunque, alla base c'è l'esigenza di un'autorealizzazione: Michel, l'immoralista, attratto dalla fulgida nudità degli adolescenti arabi e dalla bellezza dei corpi dei lavoratori della sua tenuta normanna, fa trionfare il suo vitalismo, di base nietzschiana, indifferente alla malattia e alla morte di sua moglie Marceline. Stampata in 300 copie, l'opera fu applaudita ancora una volta dal solo Ghion. Per il resto, se ne preferì tacere, poiché aveva osato in primo piano l'omosessualità. C'è addirittura chi parlò di un "libro di morte".
Nel 1911 Gide decise di parlare ancora più chiaramente, in un libello, Corydon, distribuito in poche copie e senza il nome dell'autore. Solo nel 1924 fu dato alle stampe in maniera meno clandestina, cosa che gli alienò definitivamente l'amicizia di Claudel. E' un'opera particolare, creata sulla struttura dei dialoghi cari a Platone e a Luciano. I quattro dialoghi fra Gide e Corydon (un nome virgiliano), amico di liceo dello scrittore, sono un'appassionata difesa dell'omosessualità, che prende a prestito la grandezza di personaggi come Michelangelo e Walt Whitman o quella della civiltà greca o delle altre in cui l'accettazione sociale dell'omosessualità dette vita ad un'enorme ricchezza culturale e sociale. Nel discorso vi è anche - cosa che molti hanno poi rimproverato al "pederasta" Gide - una suddivisione fra pederasti (coloro che si innamorano dei ragazzi), sodomiti (coloro il cui desiderio si rivolge agli uomini adulti) ed invertiti (coloro che giocano il ruolo di donne), un'etichettatura, poco piacevole, che è rimasta poi per molto tempo.
L'opera sicuramente più importante di Gide è Se il seme non muore, edito nel 1926. E' un libro autobiografico, diviso in due parti, la prima sulle memorie della giovinezza, la seconda sui due viaggi africani del 1893 e 1895, con i quali lo scrittore fu uno dei primi interpreti del "turismo sessuale" odierno. In quest'ultima parte lo scrittore dette vita a pagine intrise di una sensualità che infiammò molti lettori, i quali mai avevano letto delle cose così forti. E' il caso di quando racconta il suo primo rapporto sessuale col giovanissimo Alì: "La veste cadde; la gettò lontano da sé, e si alzò, nudo come un dio. Per un istante tese al cielo le braccia esili, poi ridendo si lasciò cadere contro di me. Il suo corpo era forse bruciante, ma parve alle mie mani rinfrescante come l'ombra. Com'era bella la sabbia! Nello splendore adorabile della sera, di quali raggi si vestiva la mia gioia!...". Oppure quando racconta di Mohammed, conosciuto nel secondo viaggio e descritto "dal perfetto piccolo corpo selvaggio, ardente, lascivo e tenebroso": "Più tardi, ogniqualvolta ho cercato il piacere, fu un correre dietro al ricordo di quella notte (...) Restai a lungo, dopo, quando Mohammed mi ebbe lasciato, in uno stato di gaudio fremente, e quantunque avessi già, accanto a lui, colto cinque volte la voluttà, ravvivai ancora numerose volte la mia estasi e, rientrato nella mia camera d'albergo, ne prolungai gli echi fino al mattino" (per la cronaca, in seguito, Wystan Auden mise scherzosamente in dubbio la veridicità del racconto, ai suoi occhi decisamente iperbolico).
Così, Gide trovò nel Maghreb, di fatto, quel luogo ideale esaltato nel Corydon, teatro di una sessualità libera, nel quale era possibile dar corpo finalmente a quegli amori idilliaci ed agresti della Grecia mitica e bucolica cantati da Virgilio. Un mondo che avrebbe voluto portarsi dietro. Ma quando decise di condurre con sé a Parigi il giovane Athman, giustificandolo alla madre come "un salvataggio morale" del ragazzo, la madre spense le sue illusioni dicendogli che "la solitudine del deserto gli aveva guastato il cervello"...