("Del tuo sangue innocente, o santa e bella
Barbara gloriosa, oggi le carte
Verga Campiglia, e con le note sparte
Mille e mill'occhi a lacrimar rappella…."),
per quanto la sua pubblicazione fosse un desiderio che Maddalena aveva espresso nel proprio testamento.
Sì, è vero che la suddetta si dilettava anche di rime pastorali a volte un po' sconcertanti per le tematiche trattate (che significherà mai questa ninfa che piange la morte della donna amata?) ma la critica sorvolò, continuando a proporre di Maddalena Campiglia un'immagine fortemente edulcorata, tanto più che si trattava di una poetessa "minore" e "locale", sulla quale non c'era poi molto da dire...
Vediamo, invece, cosa c'è sotto la vernice.
Maddalena Campiglia nasce nel 1553 in una situazione, per l'epoca, del tutto irregolare e clamorosa: i suoi genitori, Carlo Campiglia e Polissena Verlato, sono entrambi vedovi con prole, ma non sono sposati tra loro.
Maddalena ha anche due fratelli maggiori già nati da questa relazione e sarà solo nel 1565 che la situazione rientrerà nei binari della normalità con il matrimonio fra i genitori.
Il padre, nobile, assicura alla fanciulla un'educazione gentilizia che comprende lo studio di letteratura, poesia e musica: quest'ultimo campo doveva interessarla particolarmente poiché, negli ultimi anni della sua vita, si duole in varie lettere di aver dovuto abbandonare "le viole e i liuti e gli arpicordi" con i quali dichiara di saper fare la propria parte "se non lodatamente a pieno, almen sicura".
Il padre ne programma il futuro secondo i dettami dell'epoca, imponendo per testamento ai fratelli di trovarle marito: la dote di Maddalena aumenta annualmente e se ella non giungesse a sposarsi si troverebbe all'età di 25 anni in possesso di una notevole fortuna.
Due anni prima dell'avverarsi di tale eventualità, Maddalena viene probabilmente costretta al matrimonio con Dionisio Colzè. Affermo "costretta", suffragata da altri fatti, oltre all'ovvio interesse materiale dei parenti; ovvero: 1) dalla successiva rottura unilaterale dell'unione da parte di Maddalena, che abbandonerà il marito nel 1580, a 27 anni, per tornare a vivere nella casa paterna; 2) dall'assenza di figli; 3) dalle dichiarazioni che Maddalena stessa fa nel proprio testamento nel tentativo di negare al Colzè i diritti ereditari (che egli riuscirà comunque ad ottenere dopo la morte della donna): giacché "davanti a Dio", ella scrive, "non è mai stato mio marito".
"... e in particolare tutela piglia di noi donne, come nostro Capo, e nostra sublime Signora, che se sarà difesa da te la cause nostra, alcuna sentenza giamai verra per noi sinistra".
La verginità che Maddalena persegue e onora non è un valore maschile di scambio, entro il quale una donna vergine "vale di più" ai fini matrimoniali), ma un vero e proprio "possesso femminile" nel senso recentemente suggerito dalla filosofa Luce lrigaray.
Sarà questa la tematica anche del secondo lavoro pubblicato Flori. Favola boscareccia (1588), che le frutterà le lodi di Torquato Tasso. Che infatti le scrive da Roma il 12/8/1589:
"Io non poteva credere che alcuno sentisse piacere d'esser vinto, ma leggendo la favola pastorale di V. S. con tanto diletto ho conosciuto d'esser superato, che niun vincitore si rallegrò più della propria vittoria".
La favola reca una doppia dedica in entrambe le edizioni: gli ispiratori di Maddalena sono stati Isabella Pallavicini Lupi, marchesa di Soragna (verosimilmente, come vedremo più avanti), una delle donne amate da Maddalena) e Curzio Gonzaga, autore di un poema pastorale in lode dei signori di Mantova (il Fidamante) che ella aveva letto. In una lettera a Francesco Melchiori d'Oderzo, la poetessa afferma infatti di aver tenuto tale poema e l'Aminta del Tasso come modelli.
Ma veniamo alla favola boscareccia, classicamente divisa in cinque atti, più un sonetto e un madrigale che l'autrice dedica alla protagonista, la ninfa Flori.
"Vanamente piangendo ella disposedopo la morte d'Amaranta Ninfasua cara sì, di non amar più mai".
Devota, come le altre ninfe, a una divinità femminile (la "casta Delia"), ella trae dal proprio servizio verginale ulteriori giustificazioni per la rinuncia all'amore.
"... è veroch'io lodai, lodo, e loderò mai sempreil non servir ad huom, che d'huomo ha solole sembianze, onde copre insane vogliespesso, e di mostro, e fero ingegno, e mente".
Quando l'amica ninfa Licori le ricorda l'alta missione matrimoniale, e cioè la procreazione di figli, Flori risponde che son suoi figli "le cose create dal divin nostro pelegrino ingegno".
"II Re de l'universoScelse, tra mille una sovrana e chiaraAlma, e qui la ripose, ove di rareBeltà l'essempio scorto, huom fia conversoE con la mente al cielo e con l'affettoLe grazie ha seco tutte...".
Le iniziali di ogni capoverso di questo sonetto formano l'acrostico "Isabella", definita nel finale "nostra gloria eterna".
"So che donna amo donna, ahi c'anzi adoroninfa humil una Dea celeste in terra[...]Nel tempio del mio cor l'alma Calisamio nume è fatta, e idol mio sovrano".
Flori perora così efficacemente la propria causa da convertirvi il cantore:
"Dunque ama, Flori, e spera un giorno forsebenché strano è 'l tuo amor ne corrai frutto".
L'amore fra donne non è quindi per Campiglia, come quello eterosessuale, un ostacolo alla realizzazione spirituale, alla libertà o alla devozione; anzi, può essere "strano" agli occhi di un uomo, ma è soprattutto un amore che eleva, sacro al punto da non aver necessità del matrimonio per essere reso "lecito"; un amore nel cui fuoco ella, come la fenice, si rigenera e acquista immortalità.
La fenice, col motto "Tempore sic duro", era infatti il simbolo che Maddalena amava apporre alle edizioni delle sue opere, un simbolo potente di purificazione e rinascita con il quale la poetessa si identificava a pieno:
"…In puro foco indi felice ardendosgombrar sento da l'alma l'imperfetto,e in dolci fiamme (opposta a chiaro obietto)sola Fenice nova forma io prendo.Sola Fenice in ben'amar, del corein si soave ardor le voglie affino,ne vil pensiero entro al mio seno albergo...".
Fu una lunga e dolorosa malattia agli occhi che condusse probabilmente Maddalena Campiglia verso la fine; in una lettera al già citato Francesco Melchiori, ella se ne dice certa: "... io credo che stia per ridurmi alla morte, così non cessa di affliggermi e consumarmi".
La sua infermità è ricordata in un sonetto del letterato Orsatto Giustiniani (famoso all'epoca per la traduzione dell'Edipo Re di Sofocle):
"Febo, la tua gentil dotta Campigliada cui tanto Parnaso onor riporta,giace or per morbo rio languida e smorta,ne da soccorso uman, rimedio piglia...".
a riprova di quale onorata fama la poeta godesse in vita.
II testamento di Maddalena Campiglia è datato 1593; ella vi aggiunge un codicillo il 7 gennaio 1595 e muore il 28 dello stesso mese, a soli 42 anni (nello stesso anno, tra l'altro, in cui muore Torquato Tasso).
Due giorni dopo, come aveva richiesto nel testamento, viene sepolta nella chiesa d'Aracoeli nella tomba di Giulia Cisotti (o Cisotta), badessa di quel monastero: un indizio che può testimoniare un'intensa amicizia o un altrettanto grande amore fra le due donne.
Maddalena Campiglia non ruppe il filo della memoria e dell'affetto che la legava al proprio genere neppure dopo morta: l'irriducibile Fenice che cantava con orgoglio e ardore il suo amore lesbico ebbe dal genere femminile il suo primo riconoscimento postumo: fu infatti solo ad opera di una donna (Elena Tiepolo Milan Massari) che, sulla facciata del palazzo in cui la poeta aveva abitato, fu fatta murare nel 1897 un'iscrizione che ricordava come in quella casa fosse morta
Maddalena Campiglia,
poetessa del secolo XVI,
dal Tasso lodatissima.