Alice Ceresa (1923-2001): l'orrore della normalità

"Se c'è un genere che mi è estraneo, è il genere maschile. Capisco meglio una formica! Lo trovo troppo determinato, tradizionalista, triste, fedele ad abitudini reazionarie, perduto in automatismi, in credenze sulle quali non s'interroga mai. No, non è stimolante" [1].
Ad Alice Ceresa, invece, il significato delle cose interessava molto più delle cose stesse. Michèle Causse e Maryvonne Lapouge l'hanno descritta così:
"Calma, grave, dotata di humour noir, procede ponendo una serie di interrogativi fondamentali che sfociano in altri interrogativi ancor più fondamentali. Se l'aggettivo profondo ha ancora un senso, è alla qualità' della sua ricerca che si può applicare" [2].
Nata a Basilea nel 1923, di lingua e cultura tedesca, ottenne a vent'anni il premio Schiller con il racconto "Gli altri", scritto in italiano.
Dopo aver svolto per cinque anni attività giornalistica in Svizzera, si trasferì a Roma nel 1950, collaborando a varie riviste.
Apprezzata e sostenuta dal cerchio di avanguardia del "Gruppo 63", nel 1967 pubblicò con Einaudi La figlia prodiga, che nello stesso anno vinse il Premio Viareggio Opera Prima.
Questo "monologo", come lei lo definiva, doveva essere il primo volume di un "trittico" che però non fu mai realizzato.

Oltre al racconto "La morte del padre" [3], Ceresa ha pubblicato soltanto un secondo romanzo, Bambine (Einaudi, 1990).
Di una sua singolare "opera di diversione", il Piccolo dizionario dell'ineguaglianza femminile, sono stati stampati solo alcuni estratti [4].


Della Figlia prodiga Alice Ceresa ha detto:

"Il personaggio di cui si parla è un personaggio incredibile e improbabile...
Ho tentato di narrare un'avventura individuale nella sua parabola vitale, sostituendo non solo a un personaggio credibile un personaggio artificiale, ma anche al tessuto narrativo convenzionale e 'probabile' un tessuto astratto".
Ne deriva una scrittura fortemente sperimentale, che rifiuta elementi tradizionali del romanzo, quali i dialoghi e le descrizioni, per portarsi ad un livello parodisticamente filosofico.
Ceresa racconta la storia di una storia: e questa non è "una storia qualunque... non essendo essa mai finora stata raccontata".
La differenza sessuale è la chiave per capire il senso della provocazione simbolica:
"Una figlia prodiga non può essere solo la trascrizione grammaticale in termini femminili del suo omonimo maschile...
Ragione per cui almeno un motivo potrebbe esistere per raccontare questa storia, e cioè il motivo di raccontarla diversamente".
Infatti, al femminile, la stessa storia non avrebbe dato lo stesso personaggio, perché
"si vedono male le figlie sperperare patrimoni paterni, precipitare nella desolazione una casa per via della loro defezione e riguadagnare infine il posto d'onore nella famiglia previamente abbandonata per il semplice fatto di avervi fatto ritorno".
La figura della prodiga viene progressivamente messa a fuoco da Ceresa. Connotata da "una primissima autonomia di pensiero", "rara protervia" e "segreta appartenenza a se stessa", questa "figlia particolare e non sottoponibile alle regole delle figlie in generale" è prodiga perché "ingrata alla propria famiglia".
A differenza del notissimo figlio prodigo, la sua prodigalità non riguarda beni materiali, ma "libertà di usi e di costumi e di coscienza e di scelta e di vita".
Assente dall'infanzia convenzionale, essendo un'eccezione "trascina fatalmente con sé eccezioni ovunque vada e si muova", incorrendo nelle seguenti sanzioni. Condivide dunque la sorte comune alle figlie prodighe, le quali "non fanno testo, né è desiderato ovviamente che lo facciano". E non potrebbe essere altrimenti, visto che l' "ordine delle famiglie" non prevede le figlie prodighe, in quanto "le considera figlie degeneri o figlie sbagliate e dunque figlie solo fino a un certo punto".
Teresa de Lauretis ha interpretato la figura della figlia prodiga come un "non-soggetto sociale" che coincide con la lesbica, e giustamente percepisce il concetto di "prodigalità" come devianza sovversiva [5].
Causse e Lapouge hanno sottolineato il rigore e lo spessore intellettuale della prosa di Ceresa, la sua scelta radicale, senza mediazioni al ribasso, di richiedere uno "sforzo di lettura" che "scoraggia ogni sguardo superficiale"; pagandola in termini di popolarità e di vendite librarie [6].

Bambine, ritorno di Ceresa al romanzo a 23 anni di distanza dalla Figlia prodiga, è un testo ancora più dirompente.
L'astrazione quasi jazzistica del primo libro qui cede il posto al naturalismo; ma le sequenze descrittive sono inquietanti e beffarde come quelle della "Nuova Oggettività" tedesca e dell'iperrealismo pittorico.
Il fulcro essenziale è visivo: comincia con il disegno di una piccola città e poi di un minuscolo nucleo familiare, che diventa oggetto di una spietata vivisezione. Un esercizio in cui fu maestra, con i suoi ping-pong verbali terribilmente verosimili, la scrittrice lesbica inglese Ivy Compton-Burnett (1884-1969), che insieme a Gertrude Stein e a Simone de Beauvoir ("figlie prodighe non si nasce ma si diventa") è tra gli intuibili riferimenti letterari di Ceresa.

In Bambine la dissacrazione della "sacra famiglia" è totale, senza compromessi, attuata con feroce umorismo. La crescita delle due sorelline è congelata nei rituali ossessivi e soffocanti della Coppia Legale: l'unica speranza di vita è la fuga. Solo allora sarà possibile un bilancio tra due donne adulte finalmente diverse, un confronto tra ex prigioniere insieme estranee e complici, alle quali "non resta che procedere voltando il foglio".

A proposito della Figlia prodiga, de Lauretis osserva:

"Ceresa ha pagine taglienti sulla famiglia come istituzione... la sua analisi puntuale, lucida e priva di sentimentalismo anticipa di almeno dieci anni la critica femminista della famiglia quale struttura portante dell'istituzione eterosessuale, soprattutto nei confronti delle donne" [7].
In Bambine, questa critica si trasforma in uno specchio narrativo che riflette a rallentatore, in tutti suoi più invisibili e surreali dettagli, la follia della normalità.

Meditazione amara, fieramente ironica, sull' "inutilità delle cose in genere" e sulla perdita di senso vitale della realtà, l'opera di Alice Ceresa si incastona come un gioiello raro nel panorama delle scrittura lesbica.
In silenzio, senza rumore, lasciando lo spazio della scoperta.

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